L’esito del voto non cambia i piani in casa Telecom Italia. Ma mette un freno allo sviluppo della fibra rinviando ancora la rivoluzione digitale del Paese. Nella prima giornata utile dopo le elezioni, il gruppo controllato dalla francese Vivendi ha annunciato la separazione della rete dalle attività di servizi telefonici con la creazione di una società ad hoc controllata al 100% da Telecom. Il tema è da tempo sul tavolo, ma ha subìto un’accelerazione proprio nel bel mezzo della campagna elettorale. Con la benedizione del governo uscente: prima delle elezioni, l’amministratore delegato, Amos Genish ne aveva infatti discusso con l’allora ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda, che aveva mostrato grande entusiasmo per l’operazione.

La sconfitta del Pd di Matteo Renzi e del Pdl di Silvio Berlusconi con l’incognita del nuovo governo avrebbero dovuto suggerire un attimo di riflessione al management di Telecom che peraltro è finita nel mirino del fondo Elliott, ben noto a Fininvest. E, invece, Genish ha tirato dritto. Segno insomma che il manager vuole portare a casa un risultato importante prima del cambio di guardia a Palazzo Chigi: si parla ormai da più di un decennio della separazione della rete dai servizi che, secondo il governo Gentiloni era il presupposto essenziale per la costruzione di un’unica nuova rete a banda ultralarga. Seguendo la logica dell’esecutivo uscente, il passo successivo sarebbe la quotazione della rete Telecom per far spazio nel capitale dell’infrastruttura alla Cassa Depositi e Prestiti e infine arrivare all’intesa con Open Fiber, controllata da Cdp e da Enel. Non a caso, recentemente, la stessa Open Fiber, voluta da Matteo Renzi per contrastare il dominio di Telecom, ha rallentato i suoi piani di sviluppo nella fibra. E, in un certo senso, ha così seppellito l’ascia di guerra.

L’impressione è insomma che, nonostante la fine del patto del Nazareno, l’azienda si muova per portare a termine il progetto benedetto da Calenda tentando di evitare che qualcuno cambi le carte in tavola. E magari utilizzi il golden power, i poteri speciali in mano all’esecutivo per gli asset di interesse nazionale. Non a caso Telecom e Vivendi hanno già presentato ricorso al presidente della Repubblica Sergio Mattarella contro il golden power per scongiurare il rischio di una multa non inferiore ai 300 milioni. Inoltre, a ridosso del voto, venerdì 2 marzo, un aiutino ai francesi, soci anche di Mediaset, è arrivato dal comitato di monitoraggio che affianca Palazzo Chigi sul golden power. Il gruppo di lavoro ha chiesto all’Agcom di verificare quale sia il perimetro degli asset strategici sulla base dei quali imporre una eventuale multa a Vivendi e Telecom. L’autorità, nel cui consiglio siedono uomini vicini a Berlusconi e a Renzi, dovrebbe esprimersi nel giro di appena un paio di settimane consentendo al ministero dello Sviluppo economico di chiudere lo schema complessivo della sanzione verosimilmente prima dell’arrivo del nuovo esecutivo. E magari di fare uno sconto sulla potenziale multa.

E’ indubbio insomma che il mutato scenario politico abbia generato un inedito fermento in casa Telecom dove i numeri non sono più quelli di una volta (-38% l’utile 2017 scontando oneri straordinari, +4,4% il fatturato). E non sono in casa dell’ex monopolista. La ragione è che la separazione della rete dalle attività dei servizi non è un argomento politicamente indolore. Porta in dote una ristrutturazione dell’organico: Telecom ha già annunciato undicimila uscite fra prepensionamenti ed esuberi volontari. Ma non ha ancora trovato un accordo con i sindacati. Inoltre sullo sfondo c’è il tema della valorizzazione della rete a garanzia di 33 miliardi di debito lordo, in parte anche in pancia alle banche italiane. Quindi sul nuovo governo grava il problema di evitare l’impatto sociale dell’operazione. Sia diretto che indiretto come il rischio di strapagare l’ingresso di Cdp nel capitale della futura società delle reti quotata, azienda che secondo Telecom dovrebbe valere fra i 10 e i 14 miliardi di euro. Ma che secondo le maggiori forze politiche del Paese, 5 Stelle in primis, non vale più di 7 miliardi. Un argomento non da poco perché in ballo ci sono i soldi della Cdp, cassaforte del risparmio postale degli italiani e braccio finanziario del Paese.

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