Sei anni fa la liberazione dei beagle, poi il processo e le condanne fino al terzo grado. È vietato fare l’eutanasia ai cani quando si possono curare, perché hanno malattie, o temporanee indisposizioni, agevolmente superabili con qualche farmaco o con un po’ di tempo. Anche per questo la Cassazione ha confermato le pene per maltrattamento di animali nell’allevamento Green Hill di Montichiari (Brescia) dove cuccioli con appena un po’ di dissenteria venivano soppressi anziché curati.

Gli imputati per i quali è scattata la sentenza definitiva – pene comprese tra un anno e un anno e mezzo di carcere – sono il direttore della struttura, Roberto Bravi, il legale rappresentante, Ghislaine Rondot, il veterinario responsabile, Renzo Graziosi, e la Green Hill, società proprietaria dell’allevamento, dove si faceva sperimentazione su circa 2600 beagle, prima che venissero liberati dalle proteste degli animalisti e della popolazione locale.

Nel verdetto 10163 depositato dalla Suprema Corte, si rileva che i cani sono stati sottoposti a “comportamenti insopportabili per le loro caratteristiche etologiche” e, in alcuni casi, ad eutanasia per “patologie modeste e dopo periodi di cura troppo brevi, per le precise scelte aziendali di non curare adeguatamente i cani affetti da demodicosi e di non somministrare flebo a quelli affetti da diarrea”.

Nelle motivazioni, la III sezione penale della Cassazione ha convalidato gli accertamenti dei giudici di merito bresciani, che avevano accertato che i beagle erano stati privati dei loro “pattern comportamentali”, e sottoposti a pratiche “insopportabili” quali la “tatuatura con aghi”, vietata dalla legge, l’assordante rumore e la sporcizia, il sanguinamento per le unghie tagliate fino alla base, pratica cruente che aveva anche provocato la morte di alcuni cani.

Senza successo, gli imputati hanno cercato di difendersi davanti agli ‘ermellini’, che invece hanno sottolineato come la situazione drammatica in cui vivevano i beagle – in attesa della morte – era dovuta a “precise e consapevoli scelte decisionali di violazione delle corrette regole di tenuta dell’allevamento, adottate da soggetti pienamente dotati della competenza tecnica per comprenderne le conseguenze negative sugli animali. E il dolo degli imputati emerge con chiarezza anche dalla corrispondenza scambiata tra gli stessi”. La Cassazione ha condannato gli imputati anche a versare 2.000 euro alla Cassa delle Ammende per l’infondatezza dei loro motivi di ricorso, e a rifondere 3.500 euro di spese legali all’Ente nazionale protezione animali, 3.500 euro alla Lega anti vivisezione, 3.500 euro alla Lega per la difesa del cane e 2.500 euro alla Lega antivivisezionista.

Non tutto è lecito in allevamento e a fini sperimentali: per la prima volta in Italia in tre gradi di giudizio è stato sancito che questi ambiti di attività hanno dei limiti e se operano oltre la norma speciale commettono reato!” scrive in un comunicato la Lav che è è affidataria dei cani che furono sottoposti a sequestro giudiziario nell’estate del 2012. “Una sentenza che fa giurisprudenza – commenta la Lav – e che dimostra come le caratteristiche etologiche degli animali, anche se oggetto di sperimentazione, devono essere pienamente tenute in considerazione, così come per gli animali destinati a questa pratica non è possibile prevedere sistematicamente la loro uccisione o la mancanza di cure adeguate, solo perché ‘inservibili‘”, spiega l’avvocato della Lav, Carla Campanaro.

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