Il ministro della Giustizia Andrea Orlando dice che “il 90 per cento del gruppo dirigente del Pd è contrario all’alleanza con il Movimento Cinque Stelle”. La presidente della Regione Umbria, Katiuscia Marini, suggerisce che nel Pd ci vorrebbe un referendum per decidere, lei voterebbe No e su Twitter gira tra i militanti Pd l’hashtag #senzadime. Orlando, come molti dirigenti dem nei talk show di queste ore, dice che il referendum c’è già stato: gli elettori hanno mandato il Pd al 18 per cento. Quindi deve stare all’opposizione.

A me tanta nettezza suscita una domanda e un sospetto. La domanda riguarda la legge elettorale che porta il nome dell’ex capogruppo Pd alla Camera, il Rosatellum. Perché il Pd ha avallato e propiziato una legge proporzionale se poi ritiene incompatibili tutte le alleanze disponibili? Pensava forse di governare da solo, prendendo più del 40 per cento a livello nazionale? Se la risposta è “Sì”, allora l’intero gruppo dirigente dovrebbe abbandonare la vita politica per manifesta stupidità. Sospetto che invece la risposta corretta sia “pensavamo di governare con Berlusconi, ma è andata male”. E poiché tutta l’azione del Pd dell’ultima legislatura – ma in realtà degli ultimi 10 anni – è stata improntata da questo retropensiero, dalla continua ricerca di una tregua con la destra, forse sarebbe ora di chiedersi se sia stata una strategia sensata.

E veniamo al sospetto. La scelta di non governare con i Cinque Stelle è legittima, ma sembra che nasconda un certo disgusto, se non disprezzo, per quella parte di Paese che ha votato Luigi Di Maio invece che Renzi o Gentiloni. “Avete voluto i grillini e il loro reddito di cittadinanza? Ora ve li tenete”. Questo pensano i dirigenti Pd e la loro base. Una base che non è più di popolo, trasversale, ma quasi coincide con l’oligarchia che gestisce i rimasugli del partito, a livello locale e nazionale.

Secondo le prime analisi post-voto di Ipsos, il Pd nel 2018 ha perso 2,7 milioni di elettori rispetto al 2013. Un’emorragia che indica l’incapacità di parlare a interi blocchi sociali, non uno scossone momentaneo dovuto a un’ondata di effimera protesta. Il Pd ha preso il 18,7 per cento a livello nazionale. Ma, sempre secondo Ipsos, ci sono solo due segmenti di società in cui ha quote di consensi superiori al dato generale: i “ceti elevati”, dove ha conquistato il 22,5 per cento, e i pensionati, dove ha ottenuto il 27,6. Il Partito democratico regge quindi tra le persone che sono in grado di approfittare delle opportunità offerte dalla globalizzazione e dal cambiamento tecnologico – i “ceti elevati” – e tra coloro che ne sono immuni, i pensionati. Mentre il suo consenso si dimezza quasi rispetto alla media tra i gruppi che a questi pericoli sono più esposti: 10,3 tra i disoccupati, 11,3 tra operai e affini.

Di fronte a questi dati, i dirigenti del Pd sembrano pensare che sono gli elettori che sbagliano, che inseguono sirene populiste e miraggi di politica economica irrealizzabili o pericolosi. E quindi la strategia scelta è la seguente: lasciare che i topi in fuga dal Pd seguano i pifferai della Lega e del M5S finché non capiranno che stanno correndo verso il burrone. A quel punto, un attimo prima di cadere o mentre precipitano, torneranno dal Pd con tante scuse.

Non succederà.

E’ chiaro a qualunque persona di buon senso che il programma del Pd è più pragmatico e realizzabile di quello del Movimento Cinque Stelle. Che Di Maio e soci parlano di reddito di cittadinanza da cinque anni ma non hanno la minima idea dei tempi, dei modi, dei controlli e delle riforme necessarie per realizzarlo. Ma il Pd non prova più neppure a offrire risposte e rassicurazioni a quella parte di Paese, che è al Sud ma anche in tante aree del centro e del Nord, che chiede alla politica un aiuto. Non soltanto favori clientelari, ma un minimo di protezione di fronte a sconvolgimenti troppo grandi per essere affrontati con un po’ di risparmi messi da parte e il welfare fai-da-te della famiglia.

Milioni di persone, in Italia come in Francia, come negli Stati Uniti, si sono sentiti abbandonati da una sinistra che si trova più a suo agio agli incontri di Confindustria a Capri che in un’assemblea di quartiere dove si discute del campo rom vicino o a una manifestazione di operai in cassa integrazione. E queste persone non votano soltanto per convinzione ideologica, non è un voto di opinione il loro, è una richiesta di aiuto.

Se i Cinque Stelle deluderanno gli elettori in fuga dal Pd, questi non torneranno indietro. Andranno avanti. Verso la Lega di Matteo Salvini. Verso Casapound o qualche altro gruppo che oggi pare solo folklore.

Il Pd decida pure di allearsi con chi vuole, l’Italia andrà avanti lo stesso. Ma se non si pone la questione di come dare risposte a chi si è sentito abbandonato, nel giro di poco tempo l’Italia potrà ritrovarsi in una situazione in cui la scomparsa del Partito democratico, cioè l’ultima forza progressista con un personale capace di governare, sarà ricordata soltanto come una delle tappe verso il disastro, con il Paese stritolato da un bipolarismo populista di cui abbiamo visto soltanto l’anteprima.

E’ appena uscito il nuovo libro di Stefano Feltri, vicedirettore del Fatto Quotidiano: “Populismo sovrano” per la collana Le Vele di Einaudi 

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