Nessuno, se non Lucio Bolle, ha fatto di più per il suo Laboratorio e per il Dipartimento dove lavorava. E tutti i colleghi, i docenti e i direttori correvano da lui. Era il buon assegnista Lucio Bolle, che non faceva storie, era appassionato, disponibile e pubblicava molto. E in più aveva la fortuna di avere una sua famiglia, una compagna e due figli. Ma un lunedì mattina arrivò da lui la scadenza del contratto lasciandolo nei guai, in lacrime. E il taglio ai fondi di ricerca lo finì.

Dopo essersi addottorata e aver messo la testa a posto, Elisabetta Ferrarini ha vinto un assegno di ricerca nel Dipartimento di Scienze: ogni mattina doveva raccogliere e analizzare dati per contribuire all’attività di ricerca. E per farlo non c’erano né sabati né domeniche, occorreva portare il lavoro anche a casa. Una mattina mentre stava lì a elaborare dati, l’aria è diventata immobile e si è sollevata. Elisabetta aprì una mail in cui le ricordavano di lasciare libero l’ufficio. Il responsabile della ricerca le scrisse che poteva cercarsi lavoro altrove. Lì per lei non ci sarebbero state altre opportunità. E lei, seduta alla sua scrivania, cieca come JACK IL VIOLINISTA, rileggeva sul monitor “HAI RAGGIUNTO I SEI ANNI DI ASSEGNI DI RICERCA”.

Edoardo Aime è stato il primo del Dipartimento a pubblicare su Nature; quando ha sentito il proiettile entrargli nel cuore. Ha desiderato di essere lontano da casa ed è andato Oltreoceano per continuare la sua ricerca, invece di restare e non essere pagato. Mille volte meglio un’università straniera che arrancare sotto “questa figura alata di marmo” e “questo piedistallo di granito” con le parole PRECARIO A VITA incise sopra. Che cosa vogliono dire poi?

Questi brani – che rappresentano un libero adattamento di alcune poesie tratte dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters – sono stati letti un paio di settimane fa dal rappresentante delle ricercatrici e dei ricercatori precari durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2017/18 dell’Università di Torino.

Le storie che raccontano ci restituiscono l’immagine di un’università tutt’altro che eccellente. Eppure, negli ultimi mesi nel mondo accademico italiano non si è fatto altro che parlare di eccellenza, a partire dall’individuazione da parte dell’Anvur – l’Agenzia nazionale di valutazione dell’Università e della Ricerca – dei 180 dipartimenti appunto considerati di eccellenza e, per questo, beneficiari di un finanziamento di 271 milioni di euro nei prossimi cinque anni. Delle storture di questo sistema – che non aggiunge nuove risorse, ma redistribuisce quelle esistenti con criteri opinabili e non verificabili – si è già detto e scritto molto, a partire dal tremendo squilibrio territoriale (l’87% dei dipartimenti “eccellenti” si trova infatti nel Nord e Centro Italia).

Quello che qui vogliamo sottolineare, da precari che lavorano nel sistema universitario, è che nessuna organizzazione funziona sulla base di un pugno di eccellenze. Bisogna davvero essere miopi, poi, per non vedere i rischi della creazione di un’università che viaggia a due velocità, anche all’interno degli stessi atenei, con dipartimenti di serie A e di serie B. A fronte della retorica dell’eccellenza, il rischio del “naufragio” sembra sempre più vicino e la mania per le classifiche porterà all’inevitabile perdita del ruolo primario dell’università: promuovere una conoscenza diffusa, aperta e accessibile, capace di favorire lo sviluppo sociale ed economico del paese.

E se poi fossimo davvero dei convinti sostenitori delle classifiche, se davvero credessimo che è possibile identificare pochi meritevoli, concentrarci su di loro e dimenticarci degli altri, ecco, allora dovremmo tenere conto di tutte le classifiche, non solo di quelle che ci piacciono o ci fanno comodo. Perché, lo ricordiamo, l’Italia è il fanalino di coda in Europa per investimenti nell’università pubblica e per numero di laureati, ha un rapporto studenti/docenti elevatissimo e un reclutamento di nuovi ricercatori quasi inesistente.

Senza interventi strutturali, per l’università italiana rischiano di diventare drammaticamente veri i versi che riecheggiano dalla riva del fiume Spoon:

Affinché, il nostro lavoro non si riduca a essere un riflesso sull’acqua e andando incontro alle tenebre, le nostre energie, troppo secche per poter intrecciare corone, siano buone solo per le urne del ricordo.

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