Sta prevalendo la linea che Pd e Cinque Stelle sono agli opposti e non possono governare insieme. Ormai la scelta pare fatta: dentro il partito il piano di rinascita prevede di affidarsi a Graziano Delrio come segretario, a Paolo Gentiloni come candidato premier di elezioni imminenti causa stallo in Parlamento e a Marco Minniti come uomo d’azione, quello che da solo ha fermato gli sbarchi di migranti. Su questa reazione al tracollo elettorale di domenica è arrivato il sigillo di Repubblica che, per quanto traumatizzata dalle difficoltà editoriali, dalle oscillazioni del fondatore Eugenio Scalfari, e dalle critiche dell’ex editore Carlo De Benedetti resta il giornale di riferimento dell’area dem, come dimostra la scelta del condirettore Tommaso Cerno di candidarsi con Matteo Renzi.
Il direttore Mario Calabresi si spinge a delineare il nucleo ideologico e programmatico irrinunciabile del Pd, quell’essenza che lo rende alternativo al populismo dei Cinque Stelle:
Sforzarsi di interpretare la complessità rifuggendo da soluzioni miracolistiche; respingere le visioni manichee del mondo; attribuire valore alle competenze e all’esperienza; sostenere il lavoro e i giovani con incentivi e facilitazioni, non semplicemente attraverso sussidi; essere convinti che l’Europa e l’euro siano da cambiare e non da buttare, che il processo di integrazione sia da completare e non da boicottare; credere nel metodo scientifico, sia esso applicato alla scienza o alla medicina, a partire dai vaccini; non avere ambiguità di fronte alle migrazioni, perché sicurezza e integrazione devono stare insieme senza esitazioni.
A me queste sembrano le ragioni che spiegano perché il Pd perde, non un’identità da rivendicare. Puntare su Delrio, Gentiloni e Minniti e su questo programma minimo irrinunciabile condanna senza appello il Partito democratico a raggiungere i livelli di +Europa di Emma Bonino, fortissimo in centro a Milano e ai Parioli a Roma ma soltanto una comparsa nel panorama nazionale.
Per una ragione molto semplice: quella è l’identità minima di un partito da 3 per cento, che cerca il consenso di gente benestante che vota per spirito civico ma non chiede nulla alla politica se non un vago progressismo. E’ l’identità di un partito che non prova neppure a recuperare milioni di elettori che, sentendosi privi di rappresentanza, si sono rifugiati sotto le ali del Movimento Cinque Stelle o della Lega. Anzi, tradisce quel che molti dentro il Pd pensano: “Non ci meritano, quegli inseguitori di scie chimiche, no-vax e mangiapane a sbafo, lettori del Fatto Quotidiano hanno voluto i Cinque Stelle? Si vadano a schiantare, con il loro reddito di cittadinanza insostenibile”.
Ribadisco quello che ho già scritto qui e nel mio libro Populismo sovrano (Einaudi): quegli elettori non torneranno indietro mentre il Pd di Gentiloni e Repubblica aspettano che passi il cadavere di Di Maio. La sinistra italiana adesso è nella sua “fase Hollande”, cioè sperimenta una traumatica sconfitta dovuta anche a un leader che ha deluso. Ora sogna una “fase Macron” ma si sta invece preparando alla “fase Hamon”, cioè all’irrilevanza, politica e culturale.
Non volete recuperare gli elettori (e i lettori) che sono usciti dal Pd per andare verso i Cinque Stelle? Bene. Scelta vostra, ma dopo averli descritti come dei subumani abbindolati da illusionisti spregiudicati, non pretendente che poi tornino indietro da voi, anche in caso di fallimento dei leader e delle idee su cui hanno scommesso.
Tra sei mesi nessuno si ricorderà più di Gentiloni, il cui merito principale è aver ridotto quell’insopportabile rumore di fondo che caratterizzava la fase finale del renzismo (“i miracoli dei 1000 giorni ecc.), di Delrio, che da ministro dei Trasporti ha ceduto più di ogni altro alle lobby dei concessionari autostradali, e neppure di Minniti.
Non si tratta di salire sul carro dei vincitori. Si può benissimo rimanere all’opposizione, politica e culturale. Ma con la consapevolezza di aver perso perché si è sbagliato qualcosa e dunque col desiderio di cambiare, senza accusare gli altri – lettori ed elettori – di aver sbagliato.
Nel suo libro fondamentale, The Once and Future Liberal, lo storico americano Mark Lilla spiega perché i democratici americani hanno perso la presa sul Paese, consegnandolo a Donald Trump. Dopo il 1968, è la sua tesi, i progressisti sono stati così concentrati sulle questioni identitarie – di razza, di genere, di età, di religione – da aver ribaltato il vecchio slogan secondo cui il personale è politico. Hanno trasformato la politica in una questione personale, quasi psicanalitica, si vota o si milita per definire se stessi, non per raggiungere compromessi faticosi, conquistare diritti, evitare che conservatori e reazionari smontino le tutele conquistate. Così occupati a trovare se stessi, i Democratici hanno prima perso di utilità per i loro elettori e poi hanno perso poltrone, cariche, parlamentari.
Serva da lezione al Pd e a Repubblica: mentre voi rivendicate la vostra superiorità, i Cinque Stelle svuotano il vostro bacino, imparano a governare (più o meno), rispondono alle domande di protezione che voi bollate come pretesa di clientele e sussidi.
Se non fosse che fino a due settimane fa sosteneva il contrario, viene da dare ragione a ragione Eugenio Scalfari: nel nuovo bipolarismo populista, i Cinque Stelle occupano la parte sinistra del campo, la Lega la parte destra. Il Pd e Forza Italia stanno facendo di tutto per diventare residui, scorie di un’altra fase ormai chiusa.
E’ appena uscito il nuovo libro di Stefano Feltri, vicedirettore del Fatto Quotidiano: “Populismo sovrano” per la collana Le Vele di Einaudi