NOME DI DONNA di Marco Tullio Giordana. Con Cristiana Capotondi, Michela Cescon, Valerio Binasco. Italia 2018. Durata: 90’. Voto 3/5 (DT)
Da Milano alla campagna cremasca, la trentenne Nina, con figlia a carico, trova lavoro come inserviente in una lussuosa casa di cura per anziani benestanti. L’armonia di una nuova rinascita è subito sconvolta dalle molestie sessuali esercitate con viscida e patologica arroganza gerarchica dal direttore della clinica, a sua volta coperto delle gerarchie ecclesiastiche che finanziano l’impresa. Vista l’omertà delle colleghe che subiscono lo stesso “trattamento” Nina proverà a ribellarsi da sola, con l’aiuto non proprio travolgente del sindacato, e infine di una decisa avvocatessa. Un altro ritratto di eroe antisistema nella galleria di Giordana, modellato sul tema attualissimo delle molestie declinato in un contesto lavorativo “normale”. Girato in modo sottilmente claustrofobico nella prima parte all’interno della residenza per anziani e più formalmente convenzionale nell’ultima mezzora da courtroom movie in tribunale, Nome di donna è cinema di impegno civile a tutto tondo, dove la passione e il rispetto per causa e soggetto mostrati travalicano talvolta anche qualche ipotesi più elaborata di cinema. Visione propedeutica comunque per riprendere un discorso politico sul senso di comunità e destini condivisi tra dipendenti in un luogo di lavoro a rischio, già presente in 7 Minuti di Placido. La Capotondi recita sulle punte e senza strafare un ruolo delicato e non facile, mostrando anche molte sue grazie. Quattro/cinque battute di Adriana Asti, ospite della clinica (su tutte la chiamata Skype di Colin Firth lasciata in attesa) che meritano il prezzo intero del biglietto.