Nell’annunciare le tariffe su acciaio e alluminio, Donald Trump si è rivolto alla storia e ha citato quei presidenti che, nel passato, hanno usato il protezionismo per far crescere l’economia americana. “Tutti i nostri grandi presidenti, da Washington a Lincoln a Jackson a Teddy Roosevelt – ha detto Trump – hanno capito che l’America deve avere una base manifatturiera forte, vibrante, indipendente… La politica tariffaria protezionistica dei Repubblicani ha reso le vite dei nostri concittadini più dolce, e più luminosa”. Il parallelo storico rivela in realtà due cose: il quadro propagandistico entro cui la politica tariffaria dell’attuale presidente USA si colloca; e il conflitto aperto che tutto ciò apre con il GOP.
Iniziamo proprio da questo secondo punto. Trump parla della politica “protezionistica dei repubblicani”. È però evidente che il partito repubblicano cui si riferisce – quello che nel 1865, alla fine della Guerra Civile, abbracciava il protezionismo insieme a forti sussidi per l’industria Usa – non esiste più. Non a caso Trump, nel suo excursus storico, si riferisce a presidenti di un passato che è molto passato (Roosevelt, il più recente nella lista, concluse il suo mandato nel 1909). Il riferimento ai repubblicani del passato ha allora soprattutto un effetto: quello di svelare con forza la rottura tra la Casa Bianca e l’attuale leadership repubblicana; una rottura che, nei fatti, non è mai stata così forte.
Trump ha infatti spesso – soprattutto in campagna elettorale – preso posizioni che lo ponevano in conflitto con i big del partito. Dalla retorica contro l’industria farmaceutica e i manager degli hedge-fund alla richiesta di miliardi di dollari per le infrastrutture alle promesse di difendere Social Security e Medicare, questo presidente ha spesso sollevato la disapprovazione della Washington repubblicana. Quando però si è trattato di tradurre in atti politici concreti queste idee, Trump ha sempre fatto un passo indietro. Praticamente tutto ciò che è stato realizzato in questa prima fase di governo – tagli alle tasse, deregulation ambientale e finanziaria, smantellamento dell’Obamacare, nomina dei giudici – è stato accolto con entusiasmo dai repubblicani e coincide con le opinioni più diffuse e accettate nel partito.
Le tariffe su acciaio e alluminio spezzano questa convergenza. Per la prima volta, in modo aperto, Mitch McConnell, Paul Ryan e il cuore politico e ideologico di Washington reagiscono negativamente alle scelte di Trump. Sulle barricate, contro la nuova politica protezionistica, non ci sono del resto soltanto i politici, ma anche quel mondo economico e finanziario che da sempre appoggia il GOP. Da questo punto di vista le dimissioni di Gary Cohn, ex Goldman Sachs e mente della programmazione economica di questa amministrazione, sono estremamente significative. Il fatto è che sulla questione dei dazi è esploso un conflitto da tempo latente: da una parte c’era il mondo repubblicano e conservatore più tradizionale e ideologicamente fautore di globalizzazione e libero scambio; dall’altra, i settori più legati alle richieste che vengono dal Midwest industriale e dalle classi popolari che hanno dato il proprio voto a Trump. Alla fine, hanno vinto quest’ultimi. Trump ha firmato l’ordine che impone nuove tariffe alla Casa Bianca, circondato dallo U.S. Trade Representative Robert Lighthizer e dal suo consigliere economico Peter Navarro, entrambi convinti della necessità di raddrizzare il deficit commerciale Usa con politiche protezionistiche. I dazi svelano quindi uno scontro profondo nel GOP e l’ascesa di forze che poco hanno a che fare con il neoliberismo tipico della storia più recente del partito repubblicano.
Questo ci porta al secondo punto. Nel suo riferimento ai presidenti repubblicani, Trump avrebbe potuto citare anche qualche caso più recente. Ronald Reagan, per esempio, ricorse ai “voluntary exports restraints” per limitare l’arrivo delle auto giapponesi. E George W. Bush impose aumenti del 30 per cento alle tariffe sull’acciaio. Perché allora Trump non ha citato questi presidenti, molto più vicini a lui rispetto a Lincoln o a Teddy Roosevelt? La risposta è abbastanza chiara: per ragioni di propaganda. Reagan e Bush erano repubblicani saldamente ancorati a un’ideologia globalista e amica del free trade. Trump vuole fare esattamente il contrario: proporsi come apostolo di un nazionalismo economico che guarda alla vecchia Rust Belt e agli interessi di una classe di lavoratori dell’industria seriamente toccati dalle trasformazioni produttive. Da questo punto di vista, dunque, Reagan e Bush servono poco, davvero poco, agli obiettivi dell’attuale presidente.
Più di un economista ha del resto notato come l’imposizione di tariffe più alte su acciaio e alluminio avrà un impatto sostanzialmente limitato. I lavoratori nel settore dell’industria sono poco più di 150mila; quelli dell’alluminio raggiungono all’incirca gli stessi numeri. Difficile che produttori americani intervengano pompando miliardi in un settore non più così centrale – peraltro con il rischio che le nuove tariffe possano essere abbassate nel giro di poco tempo (quelle di Bush restarono in vigore due anni). L’occupazione nel settore non dovrebbe quindi risentirne, come non dovrebbe risentirne più di tanto nemmeno la produzione. Il fatto che Messico, Canada e Australia possano godere di forme diverse di esenzione potrebbe anzi portare a un aumento di importazioni proprio da questi Paesi.
Se dunque gli effetti pratici delle nuove misure saranno scarsi, perché Trump si imbarca in un’operazione di questo tipo – che, oltre a metterlo in contrasto col suo stesso partito, fa esplodere nuovi conflitti con gli alleati europei. La risposta è ancora la stessa: propaganda. E politica. Il prossimo novembre ci saranno le elezioni di midterm (prima, martedì 13 marzo, si voterà alle elezioni speciali per un seggio alla Camera della Pennsylvania). Le prospettive non sono delle migliori per i repubblicani, soprattutto per quei candidati che si richiamano esplicitamente a idee e politiche di Trump. Il presidente ha quindi bisogno di sparigliare le carte, andare all’attacco, mostrare che la politica di Washington non l’ha cambiato, che lui ha tenuto fede alle promesse fatte alla working class in campagna elettorale. Quale migliore occasione, quindi, che la questione dei dazi? Che dà modo a Trump di ritrovare, in un colpo solo, tutti i nemici del 2016 – globalisti di Wall Street, repubblicani di Washington, cinesi ed europei, liberal e grande stampa – riproponendosi, ancora una volta, come l’anti-sistema e il difensore dell’America che resta indietro.