Della appena trascorsa, combattuta con ogni mezzo, campagna elettorale non è certo sfuggita ai più la recente, e non ancora del tutto sopita, polemica sul Museo Egizio di Torino, che ripropone il tema della gestione dei beni culturali in generale e dei musei in particolare.

Dopo l’uscita di scena dei direttori storici è avanzata una nuova era di rampanti manager, ovviamente ansiosi di dimostrare i risultati di un cambiamento epocale: da luoghi polverosi, frequentati perlopiù da insegnanti in pensione e da vocianti, quanto distratte, ciurme di ragazzini, obbligate dalla scuola, a luoghi di tendenza, di sperimentazione, di eventi e di incontri.

Questo nuovo volto, supportato da una comunicazione martellante, una nuova immagine aziendale, un uso disinvolto dei social media ed una competizione tra loro a colpi spregiudicati di marketing, ha diviso puristi e nostalgici da possibilisti ed amanti delle novità ad ogni costo. Pochi sono sfuggiti a questa logica, siano essi responsabili di musei statali, comunali o privati, regge o siti archeologici, affannati a renderli attrattivi non solo come luoghi di pellegrinaggio laico, di cui ho già scritto, ma come mete di viaggi e di sfavillanti eventi.

La sfida, per molti direttori, è l’attrattività del museo (come bigliettazione) non raggiunta, ahimè, dalle collezioni esistenti, quanto dalla “notizia” da dare alla stampa: un prestito, un restauro di un dipinto o di un busto, una nuova colorazione delle sale espositive.

Non mi emozionano pertanto le code chilometriche davanti ai musei: non sono in automatico simbolo e sintomo di vera cultura se restano, come nella maggior parte dei casi, una visita mirata all’esposizione del momento, specie se ben veicolata sui media, senza nemmeno cogliere l’occasione per una visita approfondita al contenitore stesso o una sia pur fugace scoperta della città che li ospita.

Della rivoluzione intentata due anni fa da Dario Franceschini, con l’apertura anche agli stranieri e sulla cui legittimità è ancora pendente il ricorso al Consiglio di Stato, si è annoverato ad esempio il caso del bulimico direttore tedesco Eike Schmidt, che lascerà nel 2019 il Belpaese per Vienna. La quantità di mostre, rassegne, incontri e installazioni che prolungano lo spazio degli Uffizi sino alle piazze fiorentine, ha con i suoi pressoché quotidiani comunicati stampa sorpreso un po’ tutti tanto che c’è da chiedersi, per paradosso, se qualcuno visiti ancora le collezioni storiche.

Il punto dirimente è proprio questo: se l’evento, la provocazione continua, valgono più del museo stesso, come nel caso del nuovo allestimento, alquanto discutibile, alla Gam di Torino con le pareti color post-it o invece le più moderate, per fortuna, pareti cremisi per le sale caravaggesche agli Uffizi.

Ora, il giovane direttore dell’Egizio ha svolto un’operazione di marketing spettacolare, l’ultima di una lunga serie, sempre oggetto di discussione e di articoli, con la quale ha ottenuto il suo scopo: dalla ginnastica nello statutario, ai vari ingressi scontati ai visitatori di lingua araba e non voglio entrare nei dettagli dell’offerta perché, al pari delle offerte commerciali, contengono imprecisioni che nel rutilante mondo del marketing, però sono ininfluenti.

Così il Museo Egizio sabaudo, che era già passato, con la ristrutturazione dell’edificio, dall’austera sistemazione accademica di Schiaparelli e Drovetti all’hollywoodiana dimora dei Faraoni (non citata a sproposito la mecca del cinema, visto che l’autore del progetto di allestimento dello statuario è il pluripremiato oscar Dante Ferretti), ha scelto anche la comunicazione come crescita di consenso e di flussi turistici.

E, come si è detto viceversa prima per la gestione, essendo dotati di piena autonomia e discrezionalità, i responsabili del patrimonio architettonico e storico agiscono in modo completamente diverso, con bizzarrie evidenti ed inspiegabili ai più; alcuni direttori di regge, in virtù di una tutela estrema, ne vietano esposizioni di piccoli oggetti o quadri inerenti collezioni coeve al castello, considerandolo come una loro residenza privata, altri ci organizzerebbero fiere della porchetta o del bue grasso, a seconda della collocazione geografica del bene.

Appare del tutto evidente che dei criteri guida ed un mansionario stringente occorrerebbero sempre, siano essi beni privati o pubblici in modo che promozione della cultura e uso del bene non tolgano nulla alla loro inestimabile bellezza.

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