“Alla base del nostro declino economico non ci sono solo le politiche di austerità ma anche la precarizzazione del posto di lavoro”. Mentre i 5 stelle osservano le evoluzioni dentro il Partito democratico e in attesa dell’insediamento in Parlamento, sul Blog delle Stelle il ministro del Lavoro designato da Luigi Di Maio per un eventuale governo M5s, Pasquale Tridico, pubblica un post con quelli che ritiene essere gli interventi più urgenti per invertire la rotta. Modificando un trend “iniziato con il pacchetto Treu del 1997 ed è proseguita ininterrottamente fino al Jobs Act e alla riforma Poletti sui contratti a termine”. L’economista arriva alla conclusione che per affrontare la sfida della robotizzazione occorre “ridurre l’orario di lavoro a parità di salario, in modo da aumentare l’occupazione e di incentivare la riorganizzazione produttiva”. E difende tra il resto la proposta del reddito di cittadinanza, uno dei pilastri del programma M5s, finita al centro di polemiche politiche a causa della fake news sulle presunte “code ai Caf” di alcune Regioni per ottenerlo fin dal giorno successivo alle elezioni.
Tridico scrive che “costa 17 miliardi complessivi”, “compresi i 2,1 miliardi per rafforzare i centri per l’impiego, e potrebbe quindi finanziarsi interamente grazie ai suoi effetti sul tasso di partecipazione della forza lavoro“. La teoria è quella illustrata a dicembre sulle pagine del Fatto quotidiano: l’obbligo di iscrizione ai centri per l’impiego farebbe salire il tasso di partecipazione al lavoro e questo aumenterebbe le stime del pil potenziale dell’Italia. In questo modo, secondo l’economista, la Penisola potrebbe fare maggior deficit – con cui finanziare la misura – senza violare le regole europee a partire da quella che impone di limitare il rapporto deficit/pil al 3 per cento. “In sintesi il meccanismo è questo”, si lege nel post, “grazie alla nostra misura almeno 1 milione di persone che attualmente non cercano lavoro ma sarebbero disponibili a lavorare (i cosiddetti ‘inattivi‘ e scoraggiati) verranno spinti alla ricerca del lavoro attraverso l’iscrizione ai Centri per l’Impiego e andranno così ad aumentare il tasso di partecipazione della forza lavoro. Questo ci permetterà di rivedere al rialzo l’output gap, cioè la distanza tra il Pil potenziale dell’Italia e quello effettivo, perché 1 milione di potenziali lavoratori saranno di nuovo conteggiati nelle statistiche Istat”. E “se aumenta il Pil potenziale possiamo mantenere lo stesso rapporto deficit/Pil potenziale, cioè il cosiddetto ‘deficit strutturale’, spendendo circa 19 miliardi di euro in più di oggi”. “Lo Stato”, ricorda Tridico nel merito, “sosterrà economicamente chi oggi non raggiunge la soglia di povertà indicata da Eurostat, in cambio dell’impegno a formarsi e ad accettare almeno una delle prime tre proposte di lavoro, purché siano eque e vicine al luogo di residenza”.
Oltre al reddito di cittadinanza Tridico tocca altri quattro punti: innanzitutto gli investimenti produttivi dello Stato nei settori a più alto ritorno occupazionale, senza i quali “il reddito di cittadinanza sarebbe una misura monca, poiché non potrebbe offrire ai beneficiari il lavoro di qualità che abbiamo in mente. L’idea è di destinare almeno il 34% di questi investimenti nel Sud Italia, che ha urgente bisogno di uscire dal sottosviluppo e dal sotto-investimento a cui lo hanno condannato le politiche economiche degli ultimi decenni e l’assenza di una strategia industriale e di sviluppo. Considerando che la popolazione del Sud Italia è anche superiore al 34% del totale della popolazione, la clausola del 34% non sarebbe un favore al Meridione, ma il giusto compromesso per farlo tornare a crescere”, rivendica Tridico.
La ricetta si completa con il salario minimo orario, la auspicata Banca pubblica di investimento con tassi agevolati per il credito a micro, piccole e medie imprese e un Patto di produttività programmato tra lavoratori, governo e imprese al fine di rilanciare salari, produttività e investimenti. Il salario minimo, idea che non piace a sindacati e Confindustria, “ha il compito di salvaguardare quelle categorie di lavoratori non coperte da contrattazione nazionale collettiva. L’obiettivo è di sradicare sfruttamento e precarietà, che negli ultimi anni sono cresciuti enormemente, e dare anche un impulso alla domanda interna”.
“Se il lavoro flessibile costa poco“, ragiona Tridico, “dato che il lavoratore perde diritti e quote salari, l’impresa rinuncerà agli investimenti ad alto contenuto di capitale, all’innovazione e quindi anche alla formazione di lavoratori qualificati con più alti salari. Verrà azionata la leva della competitività salariale piuttosto che quella della innovazione e del capitale umano costoso e qualificato. Avremo frequenti casi di sotto-mansionamento, e giovani laureati costretti a svolgere lavori meno qualificati con più bassi salari. Avremo anche casi di emigrazione qualificata e “fughe di cervelli” all’estero. A perderci sarà tutto il Paese, impantanato in un contesto produttivo poco dinamico e a basso valore aggiunto”.
Di qui la necessità di un Patto di produttività “tra lavoratori, governo e imprese”, dovrebbe “rilanciare salari, produttività e investimenti, soprattutto in quei settori in cui decideremo di intervenire selettivamente con la riduzione del cuneo fiscale. Dobbiamo impedire infatti che il minor costo del lavoro porti le imprese ad ignorare gli investimenti “capital intensive” in settori ad alto contenuto tecnologico, come accaduto in questi anni tramite i circa 23 miliardi di sgravi fiscali sulle nuove assunzioni regalati dal Jobs Act”.
C’è poi “il tema di più lungo periodo della robotizzazione, una sfida che non va lasciata alla schizofrenia del mercato, ma gestita politicamente. Il primo passo in questo senso sarà la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, in modo da aumentare l’occupazione e di incentivare la riorganizzazione produttiva delle imprese”.