Il percorso di dolore è ancora lungo. L’elaborazione del lutto non è nemmeno ancora cominciata: si intrecciano nomi, numeri, dichiarazioni, politichese. Un frappè di cifre e lettere che non può fare da terapia, se non in un tempo non prevedibile: il Pd è tramortito e oggi, al Nazareno, cercherà di capire da dove cominciare, quale sia la strada. In direzione il presidente Matteo Orfini leggerà la lettera di dimissioni del segretario Matteo Renzi, mentre il vicesegretario Maurizio Martina presenterà la sua relazione. Poi si discuterà per fissare un’assemblea, che potrebbe essere il 5 aprile, ma anche no perché sono, quelli, i giorni delle consultazioni al Quirinale. E il confronto che si aprirà sarà tra chi vuole che l’assemblea elegga subito un segretario, magari per un anno, fino alle Europee, e chi invece vuole le primarie per un segretario “vero”, che duri tre anni come da statuto. Ecco: basta la fatica di scrivere (e leggere) tutti questi meccanismi, queste ipotesi, queste variabili per capire che il pensiero su una eventuale collaborazione a un governo per il Pd in questo momento non sia il primo problema. Almeno, per arrivare a decidere che cosa fare nella legislatura che sta iniziando, bisogna prima definire l’assetto interno del partito. Perciò sembra scontato che la risposta immediata, come un riflesso condizionato, sia: no grazie, fatelo voi, noi di responsabilità stiamo già morendo da sette anni. Per questo oggi il passaggio per i Cinquestelle sembra strettissimo e i contatti già avviati dal M5s con i democratici siano solo l’inizio di un lavoro che potrebbe durare molte settimane e chissà con quale esito: saranno movimenti sotterranei di un centimetro al giorno. La defenestrazione di Renzi, per dirla con una frase, difficilmente sarà lo scacco matto o lo start alle trattative decisive.
Chi sta con chi (forse)
La direzione di oggi parlerà del passato prossimo e deciderà del futuro prossimo del partito: non sarà l’occasione per lo scontro finale, ma nemmeno il luogo dell’armistizio. Il punto di partenza di una specie di labirinto sarà la risistemazione di Dario Franceschini, capo dell’AreaDem e ormai noto per fare da guida nei momenti di ricambio. I giornali a oggi descrivono il partito più o meno diviso così. Da una parte i renziani irriducibili che qualcuno vorrebbe addirittura tentati di dare una mano (bisognerebbe capire in che forma) a un governo di centrodestra: secondo il Corriere sono una settantina su 212 eletti nella direzione nazionale (che dà la linea al partito). Dall’altra parte c’è un corpaccione enorme in cui si ritrovano in accordo Franceschini (appunto), i capi delle minoranze Andrea Orlando e Michele Emiliano, ma anche i ministri e i parlamentari che guardano a Gentiloni (Madia, Minniti, Zanda): si tratta – sempre secondo i calcoli del Corriere – di circa un centinaio di componenti chiamiamoli “anti-renziani“. In mezzo ci sono una quarantina di delusi, di esclusi e di trombati: si va da quelli non ricandidati o non rieletti come l’ex vicepresidente del partito Sandra Zampa al sottosegretario uscente con delega alle Politiche comunitarie Sandro Gozi (entrambi prodiani) all’ex dalemiano Nicola Latorre fino ai renziani convinti che però hanno perso il seggio come i toscani Caterina Bini ed Edoardo Fanucci, ma anche la responsabile Scuola del partito Francesca Puglisi. Di sicuro non si tiene più la minoranza orlandiana con Cesare Damiano che viene annunciato “col bazooka” e Barbara Pollastrini che parla di “una contesa tra leaderini”.
Delrio, Zingaretti. Perfino Giachetti
Per il dopo-Renzi il nome che rimbalza di più è quello di Graziano Delrio, che sarebbe il preferito da Renzi perché sempre rimasto leale soprattutto in pubblico (che è quello che al segretario interessa). Il ministro dei Trasporti smentisce, si schermisce, si ritrae. Ma della sua possibile elezione a segretario parlano tutti i giornali, di ogni orientamento. Nella personale classifica del segretario raso al suolo dalle elezioni politiche – dice la Stampa – dopo Delrio arrivano Sergio Chiamparino e Matteo Richetti. Se si toglie l’ultima opzione (il deputato emiliano è visto troppo “coinvolto” con la stagione renziana), il governatore del Piemonte prima ha sostenuto a piena voce la candidatura del collega del Lazio Nicola Zingaretti e poi ha cominciato già a riposizionarsi dopo che si è cominciato a spendere il nome di Delrio. Un atteggiamento simbolico per grossa parte della dirigenza democratica. A oggi, dunque, secondo uno schema passibile di correzioni, Delrio potrebbe contare sul sostegno dei renziani, anche quelli non della prima ora fino a Franceschini e alle sue truppe. Zingaretti, invece, sarebbe sostenuto da alcuni colleghi governatori (come quelli dell’Emilia Stefano Bonaccini e dell’Umbria Catiuscia Marini) e poi in ordine sparso da Orlando, dal sindaco di Bologna Virginio Merola, dall’eurodeputato ex veltroniano Goffredo Bettini. Ancora da capire la scelta di campo di Michele Emiliano.
Anche perché – e si apre un altro segmento di un cannocchiale che guarda chissà dove – è da definire chi correrà per fare il segretario subito (cioè a tempo, con l’elezione dell’assemblea dei mille, ad aprile) e chi invece vuole puntare in realtà al colpo grosso, cioè la segreteria vera, “politica”, da organizzare negli anni della ricostruzione. Per dirla più facile: Delrio – che è recalcitrante perché si sente più amministratore che leader politico – potrebbe dire di sì solo alla prima opzione e non alla seconda, mentre l’obiettivo di Zingaretti potrebbe essere il secondo. Ecco, qui dentro potrebbero infilarsi i nomi di Carlo Calenda (che ha escluso di presentarsi subito come candidato segretario, ma non tout-court) e di Michele Emiliano (che ha perso malissimo le primarie del maggio scorso e quindi non si capisce perché dovrebbe replicare a così breve giro di posta). Il nome a sorpresa, in caso di primarie, potrebbe essere quello di Roberto Giachetti, scrive il Corriere.
Per ora la linea è solida: “All’opposizione”
Tutti questi posizionamenti interni al partito si riflettono anche nell’approccio al nuovo Parlamento e all’atteggiamento da tenere nei confronti delle “due maggioranze” relative: quella della coalizione di centrodestra e quella del primo partito, il M5s. Per esempio per i nomi di capigruppo – che saranno votati a fine mese – si fanno quelli di Lorenzo Guerini alla Camera e Teresa Bellanova al Senato, renziani ma diplomatici e dialoganti perché pur in una fase “comunitaria”, bisogna pur rispettare l’orientamento della maggioranza dei gruppi (i fedelissimi del segretario dimissionario a Montecitorio sulla carta sono tre quarti dei 110 eletti).
E soprattutto la gran parte della dirigenza del partito sarà d’accordo con la linea che esprimerà nella relazione di Martina: il Pd resta all’opposizione perché la responsabilità di far nascere un governo ce l’ha chi ha vinto. La pensano così Franceschini, Orlando e anche Emiliano, con la differenza che il presidente della Puglia sostiene che il Pd dovrebbe astenersi nel voto di fiducia per far partire l’esecutivo di Luigi Di Maio. Oppure, se i Cinquestelle davvero puntano a un ruolo attivo del Pd, dovranno impegnarsi un po’ di più e per lungo tempo per smuovere le energie, per “scongelare i voti” democratici, esattamente come cinque anni fa Enrico Letta chiese di fare ai capigruppo dei Cinquestelle nelle sue consultazioni da presidente incaricato perché altrimenti sarebbero risultate “frustrate – così disse – le discussioni sui punti che possiamo avere in comune”. La risposta in quel caso se la ricordano tutti. E anche le conseguenze: un governo di larghe intese, Forza Italia compresa.