Politica

Non si rifonda il Pd se si ignora la mutazione genetica dei leader

Nei titoli dei giornali, con cui pratico quotidianamente la mia personale messa laica del mattino, leggo da una settimana l’identica giaculatoria ricorrente: il Pd (o – a scelta – la Sinistra) deve rifondarsi. Il tutto argomentato come necessità di aggiornare linee programmatiche e/o pratiche. Taluno si spinge ad affrontare (gramscianamente) il nodo del radicamento sociale.

È mia personale opinione che, impostata così, la riflessione non vada da nessuna parte. E il suo vizio di fondo consiste nell’aver scambiato la causa con l’effetto.

Insomma, non si è smarrita la via perché furono adottati programmi e dimenticati radicamenti, bensì le scelte (suicide) sono avvenute proprio in quanto era stata smarrita la via, intesa come scelta di vita. E per occultare tale smarrimento vennero adottate cosmesi che sono rapidamente colate sul volto del Pd/Sinistra come una poltiglia velenosa, rivelandone i tratti avvizziti.

Per dirla tutta, a personale parere dello scrivente l’origine della catastrofe ha una causa materialissimamente umana, prima che teorico/concettuale: la mutazione genetica del personale che militava sotto le bandiere vuoi del Sol dell’Avvenire, vuoi (meglio) della Giustizia e della Libertà. Dunque, l’emergere di un dna transgenico che sostituiva militanti dediti alla promozione delle fasce deboli della società in taciti omologhi di un ceto politico autoreferenziale di Palazzo, che considera(va) prioritaria la tutela del proprio personale ruolo privilegiato, dato dall’accesso a cospicue risorse pubbliche e a organigrammi para-pubblici. Con relativi scambi tra potentati politici ed economici; cooptazioni nelle fasce privilegiate dell’affarismo e della speculazione.

Fenomeno degenerativo di cui l’elettorato e l’opinione non mainstream hanno iniziato gradatamente a rendersi conto. Con risultati di cui le elezioni del 4 marzo sono la palese riprova di una presa di coscienza.

Valutazione tradotta in bocciatura che non può essere ancora una volta rettificata con il ricorso al make up: per il Partito Democratico un po’ di parole d’ordine evocative, magari studiate da qualche spin-doctor responsabile di precedenti fallimenti nel mercato politico anglosassone, e qualche rotazione nel panel della leadership; magari giocando sulla tastiera dal piacione all’ascetico. Tanto per dire, lo Zingaretti fratello piccolo di Montalbano o il macilento e monacale renziano critico Graziano Delrio.

Per Liberi e Uguali, depandance della sinistra entrista e di Palazzo, per questo riconosciuta e schivata dal popolo di sinistra più avvertito, qualche ricorso al modernariato di Prima Repubblica e/o il lancio di qualche caratterista meno fuori ruolo di un trasversale che voleva premiare Berlusconi per la sua lotta alla criminalità organizzata e intanto collaborava a stoppare Giancarlo Caselli.

Questo per dire che mantenendo in gioco un personale di partito totalmente screditato biograficamente (e ogni riferimento a D’Alema o Bersani NON è puramente casuale), magari facendo ricorso alla tecnica dell’ammuina di re Francischiello (“tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora: chilli che stann’ a dritta vann’ a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann’ a dritta”), la caduta libera verso l’estinzione della Sinistra o – a scelta – del Pd accelererà ulteriormente.

Sicché il problema primario è la credibilità.

Dovrebbe far riflettere il fatto che mentre la Sinistra (da quella “responsabile” all’entrista) viene marginalizzata in tutta Europa, nel Regno Unito conosce una rinascita sotto la guida di Jeremy Corbyn; un tipo che mai potrebbe essere sospettato di carrierismo e collusioni inconfessabili. A cui mai si potrebbe attribuire quanto si disse di Tony Blair: “A lui non interessano le privatizzazioni, piacciono i ricchi”.