“AranCoella come Regina Coeli, no?”. Mirko sorride mentre mostra le etichette che sta per mettere sulle bottiglie di birra. È uno dei ragazzi che lavorano al birrificio “Vale La Pena”, un progetto di inclusione e di inserimento lavorativo per detenuti realizzato a Roma dalla onlus Semi di Libertà.
Inizialmente finanziato dal ministero dell’Istruzione e da quello di Giustizia, ha alla base l’idea di avviare un’impresa “che si autosostenti”. “Abbiamo scelto questo settore anche perché ha un trend in crescita nel nostro Paese”, dice Paolo Strano, presidente e fondatore della onlus.
I nomi delle birre li scelgono insieme, oppure condividendo l’idea su Facebook: GattaBuia, Buona Condotta, Amara Femmina, RecuperAle, Sèntite Libbero, Gnente Grane, Ora D’Aria. “Da qui sono passate fino ad oggi dodici persone”, dice Paolo. Sono detenuti ammessi al lavoro esterno, provenienti dal carcere romano di Rebibbia come Mirko, che è in semi-libertà e lavora qui dal 4 agosto scorso, o dai domiciliari come Daniele.
L’obiettivo, quindi, è contrastare le recidive. “Vengono formati e avviati all’inclusione professionale nella filiera della birra”, dice Paolo Strano. Anche attraverso la collaborazione con altre associazioni. “La sede del nostro birrificio è in un istituto agrario frequentato da diverse persone diversamente abili che facciamo lavorare insieme ai nostri ragazzi”, dice il presidente. “Anche loro mettono a mano le etichette delle nostre birre. Le etichette sono magari imperfette, a volte leggermente storte o con qualche bolla, ma per noi hanno un valore speciale. Mettersi in rete è un valore aggiunto”. Con EquoEvento, poi, si produce una nuova linea di birra con cibo recuperato, la RecuperAle: anche il pane dell’Hilton e di Eataly destinato a essere sprecato viene donato qui e trasformato in birra. “Gli diamo una seconda possibilità. Come ai nostri ragazzi”.
“Ora puntiamo alla commercializzazione diretta delle birre”, conclude Paolo. “Apriremo a breve, qui a Roma, un punto vendita diretto non solo delle nostre birre ma di tutti i prodotti dell’economia carceraria. E poi stiamo studiando altre possibilità come la presenza in mercati o un sistema di vendita itinerante”.