La rivalità tra Cina e Stati Uniti fa volare la vendita di armi sui mercati internazionali. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), nel periodo 2013–17 l’export cinese è arrivato a contare per il 5,7% del commercio globale, in salita di più di un terzo rispetto al 4,6% del 2008–12. Il report segue di pochi giorni l’approvazione in parlamento dell’aumento della spesa militare dell’8,1%, che passa così dai 151 miliardi di dollari del 2017 ai 175 miliardi, annunciati per il 2018, pari all’ 1,26% del Pil; un incremento giustificato dall’espansione dell’economia a un ritmo del 6,9% nel 2017, prima accelerazione su base annua dal 2010. Difendendo il ritocco all’insù, giorni fa il tabloid nazionalista Global Times spiegava che “ora che la Cina è diventata la seconda più grande economia del mondo, la sua spesa per la difesa deve corrispondere al nuovo status e alle sue missioni globali. La comunità internazionale ha chiesto a Pechino di assumere maggiori responsabilità internazionali e fornire più beni pubblici. Più obblighi internazionali richiedono più risorse finanziarie. In questo senso, un aumento della spesa per la difesa è un bene pubblico che la Cina fornisce al mondo”.

Sebbene la scarsa attendibilità dei dati ufficiali, ad oggi il gigante asiatico risulta il secondo paese a investire di più nella difesa dopo gli Stati Uniti, saldi al comando con 716 miliardi di dollari. Come annunciato dal presidente Xi Jinping durante il XIX Congresso del Partito, l’obiettivo è quello di rendere la Cina “la prima potenza militare” entro il 2050; in tal senso va letta la riforma dell’esercito – il più grande al mondo – avviata nel 2013 con lo scopo di eguagliare la superiorità numerica in termini di efficienza. Da allora il personale militare è stato alleggerito di 300mila unità, mentre una prima portaerei totalmente “made in China” dovrebbe diventare operativa entro la fine dell’anno. Non a caso, l’aumento delle esportazioni ha corrisposto una decrescita dell’import cinese del 19% nel periodo 2013-2017 rispetto al 2008-2012, segno di una raggiunta autosussistenza nel settore. Nonostante la retorica rassicurante sciorinata dai media statali, i numeri assumono tinte fosche se rapportati alla crescente muscolarità della politica estera cinese sullo scacchiere globale. In particolare nel Mar cinese meridionale, dove Pechino e i vicini rivieraschi sono ai ferri corti per questioni di sovranità.

Ma l’ammodernamento dell’arsenale cinese non preoccupa solo gli altri player regionali. Nel suo discorso sullo stato dell’Unione, facendo eco a quanto anticipato a gennaio nella National Defence Strategy, il presidente americano Donald Trump ha definito la Cina una potenza “rivale” in ambito economico, ideologico e militare. Negli ultimi anni, India, Usa, Giappone e Australia hanno inaugurato una nuova proto-organizzazione (il cosiddetto Quad) volta a contenere l’espansione cinese nell’Indo-Pacifico. Secondo il SIPRI, la necessità di arginare l’influenza di Pechino starebbe spingendo Washington a puntellare le proprie alleanze asiatiche con la vendita di armamenti sempre più sofisticati.

Tra il 2008 e il 2017, gli States hanno aumentato del 557% l’export verso l’India, ciclicamente impegnate in schermaglie di confine ad alta quota con l’ex Celeste Impero. Al contempo, le storiche frizioni tra Cina e Giappone nel Mar cinese orientale per la sovranità delle isole Senkaku/Diaoyu hanno spinto Tokyo tra le braccia di Washington. Complice la minaccia nordcoreana, tra il 2013 e il 2017 il governo nipponico ha siglato ordini per 42 aerei da combattimento e sistemi avanzati di difesa aerea e missilistica “made in Usa”. Persino un vecchio nemico come il Vietnam ha beneficiato della generosità statunitense aggiudicandosi lo scorso anno una nave pattuglia, la USS Morgenthau, prima importante vendita di armi americane nel paese del Sud-est asiatico. Specularmente, i paesi con cui Washington ha raffreddato i rapporti  —  come Venezuela, Filippine, Pakistan e Thailandia  —  si sono progressivamente direzionati verso Cina e Russia. Negli ultimi cinque anni, Pechino ha trasferito armi avanzate a 48 nazioni, tra cui svettano Pakistan, Bangladesh e Algeria. Secondo quanto lasciato intuire pochi giorni fa da Zhu Huarong, presidente del fornitore statale China South Industries, l’industria della difesa punta a sfruttare il progetto Belt and Road (una “nuova via della seta” attraverso l’Eurasia) per incrementare le proprie vendite oltreconfine. Un piano che vedrebbe la megalopoli di Chongqing, nel sud-est del paese, rivestire un ruolo di primo piano grazie alla sua posizione strategica in prossimità dei principali snodi logistici.

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