Un silenzio tombale è sceso nella campagna elettorale di quasi tutti i partiti sui temi della lotta alla corruzione e alle organizzazioni mafiose: questioni datate, polverose, ormai vintage in un’epoca dominata da ossessioni sulla sicurezza e dalla caccia all’immigrato clandestino. Nell’indifferenza di troppi elettori si sono così moltiplicate le candidature di impresentabili, con pregiudicati in grande spolvero e protagonisti (o comprimari) di scandali gratificati dai rispettivi partiti col collocamento in lista per un seggio sicuro. Del resto non sembrano preoccupare o turbare il sonno dell’opinione pubblica il proliferare di politici e funzionari corrotti, né di imprenditori e professionisti corruttori, e neppure dei loro interlocutori più o meno contigui ai gruppi mafiosi – in fondo vox populi vuole che “la mafia dia lavoro, lo Stato lo distrugga”. Forse perché i “colletti bianchi” che dominano l’universo del malaffare indossano giacche e cravatte griffate, si muovono con passo felpato nelle stanze e nelle anticamere del potere, padroneggiano procedure, codici e codicilli, realizzando quella che sempre più spesso si configura come una forma di corruzione legalizzata.

Il giudice Piercamillo Davigo propose un semplice calcolo per misurare l’asimmetria nell’aritmetica del furto: quante centinaia o migliaia di anni di attività ininterrotta occorrerebbero a uno scippatore per produrre lo stesso danno economico di un singolo crack bancario, di un dissesto finanziario, delle voragini nei bilanci pubblici delle tangenti per la realizzazione di una grande opera? E come si rapportano quelle somme con l’allarme suscitato dalle due diverse categorie di soggetti? Eppure la piccola criminalità di strada dei disperati – che le statistiche dicono essere in calo – è sempre più saldamente al centro del discorso e del dibattito pubblico. Mentre la macro-criminalità della classe dirigente è pressoché scomparsa dall’attenzione, forse perché spesso impunita, o magari perché chi la pratica esercita un controllo sulla sua stessa rappresentazione mediatica.

All’impresario siciliano definito “Il re del vento” dal Financial Times, oggi arrestato e sospettato di aver sovvenzionato la latitanza del boss mafioso Matteo Messina Denaro, era stato confiscato cinque anni fa un patrimonio di 1,3 miliardi di euro, senza che questo suscitasse particolari allarmi o reazioni a livello politico o confindustriale. Secondo gli investigatori erano frutto dei profitti acquisiti dall’ex-elettricista, trasformatosi in colosso imprenditoriale, in un business – quello delle rinnovabili e dell’eolico drogato da sovvenzioni statali e fondi europei – nel quale qualsiasi devastazione del paesaggio è praticabile se i regolatori e i controllori pubblici sono a libro paga, e soprattutto se si è al riparo sotto un ombrello di protezione mafiosa. Così un collaboratore di giustizia ha descritto le mazzette che sarebbero state versate dall’impresario al boss trapanese di Cosa nostra: “Mi ha detto che praticamente erano i soldi dell’impianto di… di quello degli impianti eolici di Alcamo, e che c’erano stati problemi perché aveva tutte cose sequestrate e i soldi tutti insieme non glieli poteva dare, perciò glieli avrebbe dati in tante tranche”.

Un’altra vicenda siciliana fresca di cronaca dipinge l’isola come una sorta di laboratorio dove sono messi alla prova nuovi modelli organizzativi che fondono corruzione, pratiche illecite elette a “sistema”, criminalità organizzata. Tutti i partecipanti al gioco si aspettano che maneggiare tangenti in certi settori – e qui si tratta di appalti autostradali, tanto per dire – sia pratica inevitabile e persino auspicabile, del resto è un affare dal quale tutti i giocatori hanno di che arricchirsi. E’ una corruzione che si è fatta regola, bussola di riferimento che orienta le scelte più delicate e fornisce uno stabile meccanismo di “governo” delle relazioni di scambio occulto. Un “tasso di illegalità neanche facilmente immaginabile”, un episodio connotato da una “naturalezza dell’illecito” che non è “mera spregiudicatezza, basata evidentemente su un senso di impunità”: così parlò il giudice nell’ordinanza di custodia cautelare del tribunale di Messina. Nulla di nuovo, verrebbe da dire, se non che lo stesso magistrato rileva che tutto ciò accade “tanto alla luce del sole da sbalordire”.

Non emerge nell’inchiesta, ma è difficile immaginare che business di questa portata si realizzino all’insaputa dei garanti mafiosi. Di sicuro tutto sembra filare liscio nel vorticoso intreccio di relazioni e affari tra i membri della sotto-commissione d’appalto che operano con criteri “peculiari” nell’avvantaggiare il colosso delle costruzione, il quale – secondo quanto afferma in un’intercettazione un ingegnere dell’impresa– avrebbe ricambiato con una tangente da 300mila euro mascherata (come ormai prassi) in consulenza fittizia: “Ha nascosto 300mila euro. Sinceramente si prendono i soldi!, so soltanto che è un metodo d’azzardo… se si viene a scoprire… Per fortuna nascondono… stai a sentirmi… l’hanno sempre fatto!!”.

Eccoli gli ingredienti chiave della corruzione organizzata: un “senso di impunità che deriva dai limiti dei poteri di controllo”, una pratica ormai “alla luce del sole”, la credenza diffusa che i suoi protagonisti l’hanno sempre fatto. Per una completa e anche formale legalizzazione della corruzione basterà forse attendere che anche la magistratura, dopo l’opinione pubblica, l’elettorato e la classe politica, alzi bandiera bianca.

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