Secondo gli osservatori la Cina teme le posizioni di Mike Pompeo, successore ultraconservatore alla guida del Dipartimento di Stato: "Spero che il cambio di personale non influisca sulle relazioni tra Cina e Stati Uniti o sulla cooperazione ad ampio spettro", ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Lu Kang
La notizia del licenziamento di Rex Tillerson da Segretario di Stato del governo degli Stati Uniti è arrivata come il proverbiale fulmine a ciel sereno. Anche in Cina. Pechino fa sapere via stampa che collaborerà con il nuovo capo della diplomazia statunitense Mike Pompeo, anche se alcuni esperti si dicono preoccupati di eventuali ripercussioni sui rapporti tra i due paesi e, soprattutto, sull’avanzamento dei colloqui sulla Corea del Nord.
La prima volta che arrivò in visita ufficiale in Cina esattamente un anno fa Xi Jinping, l’ormai líder máximo della Repubblica popolare cinese, gli riservò un’accoglienza calorosa. Sapeva forse di trovare nell’ex dirigente del colosso petrolifero Exxon, scelto dal nuovo presidente statunitense Donald Trump come capo della diplomazia del nuovo corso, un orecchio ben disposto e un atteggiamento meno impulsivo del suo comandante in capo. Un uomo che, da ex uomo d’azienda, avrebbe saputo trovare con il proprio interlocutore punti di incontro per favorire un guadagno reciproco. Insomma, la filosofia del win-win, “vinco io, vinci anche tu”, tanto difesa da Pechino.
Ieri in poche ore, tutto è cambiato. Al posto di Tillerson, licenziato per divergenze con Trump, ci sarà Mike Pompeo, ex capo della Cia e falco conservatore, considerato più vicino alle posizioni dell’inquilino della Casa Bianca. Pechino ha subito fatto sapere che collaborerà con il nuovo segretario di stato. “Spero che il cambio di personale non influisca sulle relazioni tra Cina e Stati Uniti o sulla cooperazione ad ampio spettro”, ha spiegato il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Lu Kang, invitando Washington a tenere la barra dritta sulle recenti aperture nei confronti della Corea del Nord e sugli accordi sul nucleare iraniano.
Le speranze, però, sono controbilanciate dai fatti, o meglio dagli antefatti. E questi, nel caso di Pompeo, parlano chiaro. A gennaio di quest’anno, l’ex capo della più potente agenzia di intelligence al mondo aveva dichiarato di ritenere Pechino, alla stregua di Mosca, “una grande minaccia per gli Stati Uniti”.
L’addio di Tillerson apre infatti numerose incognite. Una di queste riguarda il più ampio contesto in cui si situano le relazioni tra Cina e Washington. A cominciare dalle questioni commerciali. La scorsa settimana, l’amministrazione Trump ha annunciato l’istituzione di dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio, di cui la Cina è uno dei maggiori produttori ed esportatori al mondo. Anche se questi avranno probabilmente un effetto di poco rilievo sull’export cinese, secondo rivelazioni di Reuters Washington sarebbe pronta a dare il via a imporre nuovi dazi su un centinaio di prodotti made in China – soprattutto tecnologia, elettrodomestici di consumo e abbigliamento – per un valore di 60 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti hanno un deficit commerciale con la Cina di 375 miliardi di dollari.
D’altra parte, c’è la politica. E sul banco c’è il futuro dei colloqui con la Corea del Nord per la denuclearizzazione della penisola e, soprattutto, la questione di Taiwan. Il timore di alcuni osservatori è che l’arrivo di un falco ultraconservatore come Pompeo possa frenare i recenti entusiasmi per la distensione tra Stati Uniti e Corea del Nord – sempre la scorsa settimana, Trump si è detto pronto a incontrare Kim Jong-un e a sedersi a un tavolo entro i prossimi due mesi – e tornare ad adottare una linea dura fondata sull’inasprimento delle sanzioni contro il “Regno eremita”. I timori di un’escalation di tensione si concentrano però su Taiwan. Tra le fila dei conservatori Usa, c’è chi sostiene infatti la necessità di stringere rapporti più stretti con Taipei, per stringere un cordone di controllo intorno alla Cina continentale.
Lo stesso Trump, con una telefonata a dicembre 2016, con la presidente taiwanese Tsai Ing-wen, aveva messo in pericolo decenni di politica di riconoscimento di una sola Cina, ovvero la Repubblica popolare. L’attuale amministrazione taiwanese, preoccupata delle crescenti pressioni cinesi dal punto di vista politico e militare, a sua volta guarda con favore agli Stati Uniti come garanti dell’autonomia dell’isola.
Ora, in assenza di un interlocutore di fiducia come Tillerson – che aveva anche contatti di alto livello nelle compagnie petrolifere di Stato cinesi – e a pochi giorni dalle dimissioni di un altro uomo di riferimento, il consigliere economico della Casa Bianca Gary Cohn, i diplomatici cinesi dovranno capire a chi rivolgersi per intavolare nuovi negoziati. Impresa non facile, a giudicare da quanto riferisce chi va a Washington. “La Cina non sa ancora con chi parlare all’interno dell’amministrazione Trump”, ha dichiarato al quotidiano di Hong Kong South China Morning Post una fonte anonima vicina a Liu He, braccio destro di Xi Jinping inviato a inizio marzo negli Stati Uniti per alcuni incontri diplomatici di alto livello. “E nemmeno noi lo sappiamo”.
China Files per il Fatto