Nel 1911 Harvard, la celebre università americana, aveva elaborato e reso pubblico un modello di gestione per le aziende americane, uno strumento che doveva assistere il management giorno per giorno. Fu battezzato col termine di ‘MbO’, Management by objectives ovvero ‘Gestione per obiettivi’.
Attenzione: ‘gestione’ è la traduzione italiana di ‘management’. La componente amministrativa era (ed è) soltanto un ‘di cui’ della gestione generale (o management). E si riferisce strettamente ed esclusivamente al processo quotidiano di scelte della vita aziendale.
Furono studiate così le aziende americane, in particolare quelle strutturate per un mercato vasto e anche internazionale, che erano quasi sempre articolate sulla base di organigrammi dove si collocavano deleghe e responsabilità. Studiato il modello MbO, questo venne diffuso nelle università americane per essere poi introdotto nel circuito sanguigno delle società di consulenza. Si diffuse nel mondo ed è ancora oggi oggetto di sviluppo. E’ improntato ad una logica ferrea, cristallina. Non ammette tecnicalità (trucchi) amministrative.
A differenza di queste, le aziende a gestione diretta e monocentrica (la loro dimensione non ha nessuna influenza) non sono mai state studiate con altrettanta severità e non possono servirsi del modello MbO nella loro vita quotidiana. Nel nostro Paese, poi, il fenomeno delle aziende a gestione monocentrica è esplosivo: si calcola che il 90% delle nostre imprese (solo industria+costruzioni) abbia meno di dieci dipendenti. Una polverizzazione incredibile. Per loro nessun modello operativo di gestione quotidiana è stato studiato e messo a disposizione di questo tipo di aziende. Il sistema manifatturiero italiano è all’interno di questo raggruppamento che comprende anche il settore food e moda.
In termini di volumi prodotti il nostro è il secondo sistema manifatturiero europeo. E’ stimato essere all’avanguardia dal punto di vista delle dotazioni tecnologiche, potremmo dire certamente sovrabbondante rispetto ai risultati operativi globali. Ma ad un esame esterno esso appare largamente sottoutilizzato.
A differenza dalla situazione americana, le nostre università non hanno mai studiato né tantomeno realizzato un modello di gestione che facesse al caso nostro. Le nostro imprese adottano nel day-by-day una condotta sempre ispirata a criteri personali, talvolta perfino buffi. Le nostre università non riescono a entrare in questi organismi economici: anzi, spesso – attraverso anche il braccio operativo delle società di consulenza – cercano di applicare i criteri americani del MbO (soprattutto spingono a ‘fare il budget’) determinando il più delle volte una semplice ma rilevante crescita dei costi di gestione e dell’inefficienza gestionale. Determinano altresì visioni del market distorte, se non addirittura danni ben più gravi.
Ciò comporta inefficienze di varia natura, nel prossimo post cercheremo di tratteggiarne le principali. Sono tutte molto importanti e dannose.
L’origine familiare delle nostre aziende (molto diffusa) impronta una cultura gestionale ‘casereccia’, apparentemente efficiente: il dominus incontrastato è il commercialista. Negli Usa il ‘baubau’ quotidiano è il market, da noi invece lo è il fisco: l’importanza del commercialista scaturisce dal fatto che costui è detentore di tutta la scienza necessaria per schivare al massimo i poteri nefasti (e curiosoni) del fisco.
Ma, pur essendo spesso un’ottima persona, il commercialista è – per sua strutturale formazione – una persona che professionalmente tende a guardare all’indietro e a interpretarlo secondo schemi amministrativi, non manageriali; puntano lo sguardo all’esito del bilancio, in cui sono maestri nell’arte di imbellettarlo o di nasconderne le bellezze eventuali: quasi mai conoscono la contabilità industriale, che è quella che permette di capire che fare di fronte alle ubbie del market. A volte, sotto l’aspetto delle naturali esigenze manageriali di qualsivoglia impresa, risultano perfino pericolosi.
Questo è il comparto economico più importante del nostro Paese: la sua stasi produce la maggior parte della disoccupazione e della povertà nazionale. A questo punto mi chiedo: ma a che possono servire le teorie dei grandi pensatori? E’ da qui che bisogna partire. E di qui partiremo.