di Tecla Faranda*
E’ stata di recente pubblicata una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Cgue), sollecitata dalla Corte Suprema della Catalogna a pronunciarsi sulla legittimità di un licenziamento collettivo in Spagna nei confronti di una lavoratrice madre. Dobbiamo quindi chiederci che impatto può avere questa sentenza nel nostro Paese.
Come è noto la Corte di Giustizia Ue pronuncia su casi specifici, che sono all’esame delle Corti Nazionali, ma sulla compatibilità delle diverse leggi nazionali, applicate dalle Corti Nazionali ai singoli casi, con i principi fondamentali dell’Unione Europea e in particolare, in questo caso, con la direttiva 92/85 sulla tutela della salute psicofisica delle lavoratrici madri, che valuta come particolarmente grave il rischio di interruzioni volontarie della gravidanza in mancanza di un’adeguata tutela contro il licenziamento.
In altre parole la Corte Ue funge un po’ da Corte Costituzionale sovrannazionale e mira ad un’uniformazione delle diverse leggi nazionali ad un livello minimo accettabile, che impedisca eccessive discriminazioni delle posizioni giuridiche soggettive da Stato a Stato.
Nel caso spagnolo la Corte ha deliberato che è legittima e conforme ai principi generali dell’Unione la legge spagnola che ammette la possibilità di licenziare una lavoratrice, nell’ambito di un licenziamento collettivo, purché il licenziamento sia motivato da ragioni oggettive (e non legate alla condizione personale della lavoratrice) e sia prevista una tutela risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo oltre alla reintegrazione conseguente alla nullità.
La Corte non differenzia le diverse situazioni sulla base delle quali si possa procedere a un licenziamento collettivo: delocalizzazione, riduzione di personale per motivi produttivi, chiusura di una sede, o altri motivi, né affronta il problema dei criteri di scelta da rispettare sulla base delle situazioni individuali tutte le volte in cui il licenziamento collettivo non si applichi a tutti i lavoratori, ma soltanto ad alcuni o ad alcune categorie di essi, limitandosi a richiedere che i requisiti siano oggettivi ed indicati alla lavoratrice.
In Italia, come è noto, vige il divieto assoluto di licenziamento (e per il caso equiparato per legge delle madri adottive) dall’inizio della gestazione, resa nota al datore di lavoro, fino al compimento dell’anno del bambino.
Poiché il presupposto del divieto assoluto è costituito dalla presunzione che il licenziamento della lavoratrice madre, per qualsiasi causa sia formalmente intimato, potrebbe essere in realtà motivato dallo stato personale della lavoratrice, il divieto assoluto cade nelle ipotesi in cui, per motivi oggettivi, debba considerarsi esclusa questa presunzione.
Nel nostro Paese, in caso di licenziamento collettivo, l’unica causa che legittima il licenziamento della lavoratrice madre rispondendo a tale requisito è la cessazione dell’attività del datore di lavoro che determini il licenziamento di tutti i lavoratori, essendo pertanto sempre illegittimo, secondo la legge italiana, il licenziamento collettivo nei confronti di una lavoratrice madre dovuto ad altre cause che comunque possano legittimare un licenziamento collettivo in sé, come una delocalizzazione, non ponendosi pertanto il problema dei criteri di scelta dei lavoratori.
In conclusione, pertanto, con specifico riferimento alla legittimità del licenziamento collettivo di una lavoratrice madre, la legge italiana offre una tutela più estesa rispetto a quella minima prevista dall’Unione Europea sia in ordine ai motivi, sia in ordine alla più estesa definizione della lavoratrice madre rispetto alla lavoratrice “gestante”.
Anche al di là dell’impatto che può trovare questa sentenza della Corte di Giustizia ai licenziamenti collettivi in Italia, che in questo caso è scarso, bisogna però considerare l’impatto sulle lavoratrici italiane che, come ormai frequentemente accade, trascorrano periodi in altri Paesi dell’Unione nell’ambito di gruppi internazionali.
Nel momento in cui, invece di essere distaccate temporaneamente in altri Paesi dell’Unione con applicazione della legge italiana, si trovassero ad accettare contratti, magari di breve durata, soggetti ad altra legge Ue, le lavoratrici italiane devono essere consapevoli che la tutela minima ritenuta legittima dall’Unione nei singoli Stati è, perlomeno sotto questo profilo, inferiore a quella prevista nel nostro Paese.
* Laureata in giurisprudenza e in scienze politiche in materie internazionalistiche, avvocato da più di trent’anni e referente milanese dei giuristi democratici, mi sono occupata spesso di lavoro e previdenza anche nell’ambito internazionale, professionalmente e in iniziative di solidarietà a tutela dei deboli, che siano singoli o popoli. Credo che non ci sia mai giustizia senza uguaglianza, solidarietà e rispetto per le diversità, perché siamo tutti diversi, come individui singoli e come popoli, ma dobbiamo capire che la diversità è una ricchezza da condividere, e l’uguaglianza di tutti, ciascuno nella sua diversità, è l’obiettivo da raggiungere, non il punto di partenza.