Alle 9,02 del 16 marzo 1978 un commando di almeno 12 persone delle Brigate rosse assale in via Fani a Roma due auto: una Fiat 130 blu con il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro e i carabinieri Domenico Ricci e Oreste Leonardi. Nella seconda vettura della scorta, un’Alfetta bianca, ci sono tre poliziotti: Raffaele Iozzini, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Le due auto vengono bloccate, all’incrocio con via Stresa, dalla 128 familiare dei brigatisti. La pioggia di fuoco dura pochi secondi e provoca la morte dei cinque agenti della scorta.
Aldo Moro, rimasto illeso, è caricato su un’altra auto. Rimane prigioniero delle Brigate rosse fino al 9 maggio, giorno nel quale viene ucciso dai suoi carcerieri.
È la più grave tragedia dell’Italia repubblicana, per il tributo di sangue versato durante il rapimento e per quei 55 giorni di prigionia che lasciano nell’angoscia un intero Paese.
Aldo Moro era un politico, un intellettuale cattolico, uno statista. Deputato sin dalla prima legislatura repubblicana è stato più volte ministro, presidente del Consiglio e segretario della Democrazia cristiana dal 1959 al 1964. Di lui si parlava come possibile nuovo presidente della Repubblica. Come tutti gli uomini di pensiero, Aldo Moro era molto di più delle cariche che ha ricoperto. In un tornante storico caratterizzato da uno schema quasi bipolare (il 73% dei suffragi è distribuito fra la Dc e il Pci), Moro è l’autorevole mediatore che riesce a convincere il Pci a dare il suo voto favorevole al governo monocolore democristiano. Quella mattina del 16 marzo, Moro sta dirigendosi alla Camera per votare la fiducia al nuovo Esecutivo che si avvale del sostegno esterno anche dei socialisti, dei socialdemocratici e dei repubblicani.
Moro non mira a realizzare un governo Dc-Pci-Psi, secondo lo schema del compromesso storico proposto dal segretario comunista Enrico Berlinguer. Moro vuole realizzare le condizioni per una compiuta democrazia dell’alternanza.
Con il suo rapimento, non soltanto l’opinione pubblica, ma le stesse istituzioni sono colte di sorpresa: al più alto attacco terroristico corrisponde la più bassa funzionalità degli apparati di sicurezza.
I brigatisti stavano preparando il rapimento di Aldo Moro dal settembre 1977. L’ipotesi iniziale prevedeva di sequestrare Moro prima delle 9 del mattino, quando era solito passeggiare con il maresciallo Leonardi. Si sarebbe potuto immobilizzare l’agente ed evitare il bagno di sangue. Poi il progetto dei brigatisti cambia e si pensa all’agguato in via Fani scegliendo volutamente uno scontro armato, per lasciare morti sul terreno e produrre un’azione tanto eclatante quanto sconvolgente.
Quel 16 marzo 1978, non appena si diffonde la notizia, l’Italia spontaneamente si ferma. Si interrompe il lavoro nelle fabbriche, si esce dalle scuole. I sindacati proclamano lo sciopero generale fino a mezzanotte. Quindici milioni di italiani, democristiani e comunisti assieme in modo irrituale con le loro bandiere bianche e rosse, affollano le piazze. Una continua, e mai vista, diretta televisiva sui due canali Rai segna anche la giornata più lunga dell’informazione.
Che fare per liberare il prigioniero? Nessuna trattativa con i terroristi, così decidono le principali forze politiche. Ci sono 5 uomini dello Stato caduti e la consapevolezza che da un negoziato con le Brigate rosse le istituzioni ne escano ancora più indebolite. Questo il clima che impedisce la trattativa.
Non è stato però non patteggiare con i sequestratori a determinare la vittoria contro il terrorismo. Lo Stato, come lucidamente rimarca Moro nelle sue lettere dalla prigionia, ha già trattato con le organizzazioni armate. Si negozierà in seguito, nell’aprile 1981 coinvolgendo anche la camorra, per liberare dalle Br l’esponente campano della Democrazia cristiana Ciro Cirillo.
Anche nel 1974, dopo il rapimento del giudice Mario Sossi si decise di non trattare, ma poi il tempo e la volontà di arrivare alla liberazione del prigioniero smussò le contrapposizioni. Non è accaduto per Moro, dove tutto sembra rimanere bloccato al 16 marzo, nonostante nelle settimane successive i socialisti si muovano per cercare un accordo con i terroristi.
Resta chiara, in buona o in cattiva fede, la volontà dello Stato di non compiere alcun passo per liberare il prigioniero.
Va inoltre ascritta a una strategia sbagliata, la decisione di delegittimare le lettere di Aldo Moro, viste come frutto di un “lavaggio del cervello”. È stato un modo per uccidere anzitempo il prigioniero e, al contempo, un condizionamento psicologico sull’opinione pubblica per prepararla all’ineluttabile destino.