La radio è ritornata alla ribalta.
Ci sono due imparziali giudici che possono giudicare il successo o meno di un mezzo di comunicazione di massa: il pubblico e la pubblicità. Il primo misura la diffusione del mezzo; la quantità di pubblicità che si riversa nel mezzo, in particolare per quelli che vivono prevalentemente con essa, indica il valore commerciale del mezzo stesso.
Questi due “giudici” stanno decretando che la radio, la “vecchia” radio che molti consideravano ai margini della comunicazione, sta conoscendo un nuovo revival.
Gli ascoltatori della radio crescono negli ultimi anni in media annua di circa un punto percentuale, e sono arrivati a 35,5 milioni, a fronte di una pari decrescita della Tv (un vantaggio per la radio è che si sono ridotte le fastidiose interferenze, in particolare per le autoradio, grazie alla graduale introduzione della tecnica digitale DAB). In una recente ricerca, metà della popolazione accede sistematicamente alla radio (il picco di ascolti è la mattina e riguarda le persone che si spostano in auto). Oltretutto il pubblico radiofonico prevalente è quello della cosiddetta Generazione X (35-44anni) e dei Boomers (45-64anni), a differenza della televisione dove predominano gli anziani. Quest’ultimo dato è un atout per gli inserzionisti pubblicitari, per i produttori di beni di largo consumo, per i prodotti di marca e quelli di élite. Insomma nella radio le esigenze degli inserzionisti collimano con quelle dei radioascoltatori.
La radio è l’unico mezzo, insieme al web, che incrementa il proprio gettito pubblicitario. Negli ultimi tre anni la radio cresce di +4% in media annua, mentre l’intero mercato diminuisce di -0,5%. Trend positivo che si conferma anche nell’anno in corso (+5% a gennaio). La radio ha raggiunto il 7% di quota del mercato dei mezzi classici e non è azzardato prevedere che nel medio periodo possa superare la quota del 10%, come peraltro avviene in diversi altri paesi.
Insomma, la vecchia “sorella cieca della Tv”, come qualcuno la schernì rimarcando la sudditanza nei confronti della televisione, si sta prendendo le sue rivincite. Non a caso diverse star dello spettacolo preferiscono cimentarsi nella radio, spesso utilizzandola come “stabilizzatore” del loro successo.
Il gruppo Mediaset è entrato nella radiofonia nel settembre 2015 acquisendo il controllo della Monradio (emittente di R101) dalla Mondadori e quello del Gruppo Finelco, e più recentemente Radio Subasio, arrivando a circa il 16% degli ascoltatori nel giorno medio. RadioMediaset occupa (nella fascia 6:00-24:00) il primo posto delle quote di audience dei gruppi editoriali con circa il 16% di share (seguita da RTL102,5 con l’11%, da RadioRai e dal gruppo GEDI). C’è da domandarsi se sia stata Mediaset a alimentare l’intero settore o se invece Mediaset abbia colto in anticipo il rilancio della radio.
Anche la Rai sta riorganizzando la sua radio. Alle cinque radio storiche, fra le quali Radiouno, Radiodue e Radiotre, si sono aggiunte cinque nuove radio digitali (Tutta-Italiana, Classica, Live, Kids, Techetè). In sostanza nella radio si ripete quanto è avvenuto nella Tv a seguito dell’introduzione del digitale terrestre, dove alle tre reti generaliste si aggiunsero una decina di canali specializzati, canali che, esclusi Premium e Rai5, non hanno dato risultati apprezzabili.
Il problema di RadioRai è il calo degli ascolti delle due principali radio, Radiouno e Radiodue, e soprattutto l’invecchiamento del suo pubblico (come avviene anche nelle reti televisive). La soluzione non è tanto quella di moltiplicare l’offerta con altre “piccole” radio, quanto quella di migliorare l’offerta delle due radio tradizionali (Radiotre mantiene il suo alto profilo). Si potrebbe anche societarizzare il segmento radio: solo dando autonomia e responsabilità vere al settore si potranno capire le reali potenzialità del mezzo.