Con quella contro la Scozia, sono 17 le sconfitte di fila degli azzurri nel torneo: non succedeva dal 1920. Le cause sono tante: gli investimenti discutibili sulle accademie federali, il percorso faticoso delle due franchigie nel Pro14, soprattutto un campionato nazionale troppo modesto e confinato in un paio di Regioni settentrionali. Intanto la Georgia, la nazionale che vorrebbe prendere il nostro posto, è sempre più vicina
L’Italia del rugby è la peggior squadra del Sei Nazioni. Non solo di questa edizione, conclusa ancora una volta con l’ultimo posto e il tradizionale “cucchiaio di legno” a cui ormai siamo abituati. È la peggior squadra di tutti i tempi. Con quella contro la Scozia, sono 17 le sconfitte di fila degli azzurri nel torneo: non succedeva dal 1920.
Bisogna tornare indietro di quasi 100 anni per trovare un record tanto negativo. La peggior striscia di sempre, che sembrava ineguagliabile in tempi moderni, risale al periodo 1911-1920, quando la Francia era appena entrata nel torneo britannico Home Championship, trasformandolo nel 5 Nazioni. Questa è una delle storielle che continuiamo a raccontarci per consolazione: “La Francia ha aspettato 50 anni per vincere il trofeo”. Vero, ma era un secolo fa: oggi il rugby è professionismo, e la Federazione italiana grazie alla partecipazione internazionale ha un fatturato di oltre 40 milioni di euro l’anno, che dovrebbe portare qualche risultato. Invece non vinciamo una partita ufficiale da tre anni esatti, abbiamo battuto anche il precedente record di inizio anni Duemila, sotto la gestione di Brad Johnston, una delle nazionale peggiori che si ricordi, caratterizzata da un pesante ricambio generazionale. Proprio come questa.
La sconfitta in casa contro la Scozia nell’ultimo turno, beffarda, arrivata praticamente allo scadere per il solito crollo finale che ha vanificato una buona prestazione, certifica il record negativo ma in fondo non cambia troppo le cose. La situazione sarebbe stata critica anche in caso di vittoria. Il ct Conor O’Shea era stato accolto in Federazione con grande entusiasmo, ma per ora, con l’eccezione della storica vittoria contro il Sudafrica (in amichevole), i progressi auspicati proprio non si vedono. Anzi, la situazione sembra peggiorare invece che migliorare: il gap rispetto alle grandi d’Europa si è ampliato. Ormai gli avversari contro di noi mandano in campo le riserve, come ha fatto il Galles (che ha fatto riposare 10 titolari, quasi un allenamento); o vincono anche giocando malissimo, come la Francia. Siamo diventati quasi lo zimbello del torneo, e questo fa più male delle 17 sconfitte di fila.
La ragione è semplice. La generazione d’oro dei vari Parisse, Castrogiovanni, Bergamasco & co., che ha avuto il suo apice probabilmente nel 2007 con Berbizier (ma anche nel 2013 con Brunel) si è ormai esaurita: di quella nidiata anni Ottanta resta ormai il solo capitano, per altro evidentemente in fase calante. Oggi in campo mandiamo qualche giovane promettente ma più o meno acerbo, un paio di senatori in disarmo e una squadra senza collante. È come se la gestione O’Shea fosse una lunga traversata nel deserto del ricambio generazionale, da cui non è detto che usciremo vivi. C’è il rischio concreto di uscire dall’élite europea in cui stavamo faticosamente entrando.
Più difficile dire come si sia arrivati a questo punto. Le cause sono tante: gli investimenti discutibili sulle accademie federali, il percorso faticoso delle due franchigie nel Pro14, soprattutto un campionato nazionale troppo modesto e confinato in un paio di Regioni settentrionali, insufficiente a far crescere i (pochi) talenti a disposizione. Così è stato dilapidato il patrimonio mediatico ed economico costruito dalla FederRugby (che, ricordiamo, è il secondo sport più ricco d’Italia).
Non resta che aggrapparsi a qualche piccolo segnale positivo. Il tecnico irlandese sta lavorando tanto per creare una nuova nazionale, con una base di giocatori più larga, cercando di far maturare i giovani futuribili. Uno di questi è Matteo Minozzi, classe ‘96, che a 21 anni è già l’italiano che ha segnato più mete in una singola edizione del Sei Nazioni: forse l’unica vera nota lieta del 2018. Poi ci sono anche Polledri e Negri, Allan, Canna, Violi. E i lampi dell’Under 20, che quest’anno ha chiuso con due vittorie al terzo posto, miglior risultato di sempre. Magari un giorno questi ragazzi cresceranno, e con loro l’Italia del rugby. Intanto però non siamo mai stati così lontani dalle grandi. E la Georgia, la piccola nazionale caucasica che vorrebbe prendere il nostro posto, è sempre più vicina. Ci sfiderà a novembre, in una partita che a questo punto diventa molto più che una semplice amichevole: se perdiamo anche quella, vuol dire che forse davvero non siamo più da Sei Nazioni.
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