Il titolo non è un refuso. Vorrei riflettere nel giorno della “festa del papà” (19 marzo), sull’importanza dei padri nella vita di tutti noi e sulle difficoltà che hanno molti di loro – in un periodo storico in cui aumenta a dismisura il numero di quelli consapevoli, presenti, partecipi e felici di occuparsi del percorso evolutivo dei figli – paradossalmente oggi, dopo la dissoluzione della “famiglia” (a causa dell’interruzione del vincolo tra l’uomo-padre e la donna-madre), nel mantenere tale precipuo ruolo.

Mio padre in questi giorni avrebbe compiuto 83 anni. E’ scomparso pochi giorni fa. Conosco l’importanza del ruolo. Non intendo esondare dalla mia formazione e mi limiterò a ricordare quello che oramai è notorio anche a chi non si occupi di psicologia evolutiva, di psichiatria e di sociologia: il ruolo fondamentale dell’influenza della figura paterna durante tre periodi di vita, quali la fase pre-edipica, edipica e adolescenziale.

Invero “se a lungo il ruolo paterno, all’interno della cornice familiare, è stato identificato come ‘dispensatore di sostegno economico’ (capitale finanziario), oggi è sempre più valorizzato il suo contributo nei termini di ‘capitale sociale’/umano.” (“Una riflessione pedagogica sui padri, il loro ruolo educativo, la loro presenza nei servizi per l’infanzia”, Silvia Cescato, in Ricerche di Pedagogia e Didattica – Journal of Theories and Research in Education 12, 2, 2017). E ancora: “La specificità che la figura maschile riveste nelle sue modalità di cura, comunicazione, interazione, sostiene e orienta la separazione del bambino dalla madre, contribuendo ad allargare la relazione duale madre-figlio e facendo in modo che la separazione non sia vissuta come distacco/privazione, ‘abbandono e vuoto’ (Fruggeri, 2002, p. 115), quanto piuttosto come un momento ‘naturale’ di passaggio, di transizione a nuove interazioni (padre-figlio, madre-padre-figlio, altre figure extra-familiari). Gli studi ‘depongono per il fatto che il padre è estremamente importante già dai primi anni di vita‘ (Baldoni, 2005, p. 94) […] Un numero consistente di studi negli ultimi anni ‘ha evidenziato l’importanza che il rapporto con il padre ha per lo sviluppo infantile, la cui influenza, specie nella prima infanzia, è stata sottovalutata’ (Di Folco & Zavattini, 2014, p. 159)” (Cescato, cit.).

Dunque chi vuole rimuovere la figura del padre dalla vita di un figlio (e anche chi vuole rimuovere la figura di una madre) attenta non solo allo sviluppo sereno ed equilibrato del figlio ma tende a demolire la vita e l’esistenza del padre, oltre che a rimuovere tutto ciò che è paterno (dunque nonni, zii, cugini etc.). La rimozione (psicologica, con uno spettro infinito di condotte malevoli che supera ogni fantasia) di un genitore è una condotta che nasce con l’evoluzione stessa dell’uomo. Nella notte dei tempi. Non è un’invenzione moderna. Ora si osserva più spesso e si nota che investe migliaia e migliaia di genitori, ogni anno. La casistica c’insegna che coinvolge circa il 70/80% dei padri.

Probabilmente non è una questione di genere/sesso ma coinvolge (agevolandone tale condotta) il genitore al quale è di fatto affidato in modo prevalente, dominante, il figlio. Le Corti di giustizia italiane hanno infatti creato il genitore cosiddetto collocatario (al contrario della ratio legis ex l. 54/2006 sull’affidamento condiviso), così contrapponendolo fortemente al genitore non collocatario, che diviene di serie B. Il genitore al quale vengono concesse le ore d’aria a weekend alternati e poco altro. Il genitore di serie B è così destinato a perdere il suo ruolo verso il figlio, non potendo di fatto crescerlo.

Il fenomeno di allontanamento si può dunque manifestare in modo virulento come alienazione genitoriale, che molti ancora non hanno compreso (o ancor peggio, non vogliono comprendere) essere la condotta (di rimozione, demolizione, denigrazione, annientamento dell’altro genitore), e non la patologia (Pas, Parental Alienation Syndrome, che peraltro – sfatiamo questa fake news – non è assolutamente vero che non compaia nel Dsm-v – Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, pubblicato in Italia nel 2014 – nel quale difatti sono riportati esattamente tutti i suoi tratti sintomatici).

L’alienazione è un fatto, la Pas è una patologia. L’alienazione è un abuso dell’infanzia (o dell’adolescenza). La Pas è la conseguenza, è la patologia che nei casi più gravi può anche insorgere. L’alienazione è lo squarcio. La Pas è l’infezione che può manifestarsi e perdurare. Sono distinti.

Non si può negare la valenza a un fatto se vi è evidenza che accada o sia accaduto. E spesso tale evidenza c’è e compare anche nelle consulenze tecniche. Ma poi vengono ignorate dai Tribunali che decidono di lasciar trascorrere il tempo, lasciando collocato il figlio dal genitore alienante. Ed è come lasciare la vittima al suo aguzzino. Si alimenta l’alienazione, invece di contrastarla. Ma il modo ideale per disinnescare tutto ciò sarebbe l’introduzione di un reato specifico. E l’auspicio è che il legislatore lo faccia subito, perché è un’urgenza che coinvolge un numero enorme di persone e di vite.

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