Devo ammettere che questa mi mancava. Sapevo della giornata della donna, di quella del papà, di quella della memoria, ma di quella della felicità proprio no. E invece esiste: si celebra (si fa per dire) oggi il 20 marzo, giusto il giorno dopo quella del papà. E dodici giorni dopo quella della donna. Marzo insomma è un mese di ricorrenze. Ma questa, a differenza delle altre, è di istituzione molto recente, data al 28 giugno 2012, ed è una pensata dell’Onu, così motivata: “L’Assemblea generale, consapevole che la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell’umanità, riconoscendo inoltre di un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone, decide di proclamare il 20 marzo la Giornata Internazionale della Felicità”.
E’ del tutto evidente come questa presa d’impegno prenda lo spunto dalla dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti (non dal film di Gabriele Muccino, almeno quello…), laddove si affermava: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità.”
Ma non importa tanto l’origine, quanto il contenuto di questa Felicità con la effe maiuscola, che si comprende essere indissolubilmente legata allo sviluppo sostenibile, un’altra invenzione dell’Onu, questa invece datata 1987 e contenuta nel Rapporto Bruntland: “Per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”.
È stupefacente come l’assemblea dell’Onu 31 anni dopo la creazione della locuzione “sviluppo sostenibile”, non si sia resa conto della sua perfetta stupidità e non se ne vergogni amaramente. Come fa a esistere uno sviluppo, inteso nella comune accezione di “crescita”, che non consumi le risorse della Madre Terra? È evidente che se vuoi svilupparti devi rinunciare alla sostenibilità, se vuoi la sostenibilità devi rinunciare allo sviluppo: non si possono salvare capra e cavoli.
Del resto, basterebbe che questi soloni uscissero dal loro bel Palazzo di Vetro, per toccare con mano cos’è lo sviluppo che li circonda. Gli Stati Uniti sono il maggior consumatore di risorse al mondo, con una impronta ecologica pari a 9,6, contro lo 0,8 dell’Etiopia. Con il risultato consequenziale che l’overshoot day, cioè il giorno in cui durante l’anno si sono già consumate le risorse della Terra, nel 2017 è caduto il 2 agosto (questo non si celebra, neh?): mai così presto da quando fu istituito.
Ma almeno gli Usa hanno eliminato la povertà (che dovrebbe essere eradicata secondo i soloni dell’Onu)? Manco per idea. Come ricordal’amica Elisabetta Grande nel suo Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, nel 2015 la metà degli americani aveva un salario mensile ai limiti della sopravvivenza. L’amico Corrado Franco, recatosi a Los Angeles per promuovere il suo docu-film Al di qua, girato fra i poveri di Torino, ha scritto nel dicembre scorso una lettera al presidente Trump per denunciare la situazione degli homeless americani e, in particolare in quella Los Angeles famosa nel mondo per la sua ricchezza: “Ieri ho visitato Skid Row a Los Angeles dove centinaia di homeless, uomini e donne, vivono come in un girone dantesco”.
In compenso negli States l’1% più ricco della popolazione possiede oltre il 37% della ricchezza nazionale. E poi ancora, una curiosità: chi sono i poveri per i rappresentanti delle Nazioni Unite? Sono poveri e debbono essere sviluppati anche i Sentinelesi delle Andamane o gli Yanomani dell’Amazzonia o i Penan del Borneo? E sono infelici questi che chiamiamo “uomini primitivi”?
E infine: è con lo sviluppo, sostenibile o meno, che si raggiunge la felicità? O non aveva magari ragione un altro americano, l’economista Richard Easterlin, che scoprì “il paradosso della felicità”, e cioè che all’aumentare della ricchezza, la felicità aumentava in un primo momento, poi viveva una breve stagione di equilibrio e poi giù, di nuovo verso l’infelicità. Tradotto, molto banalmente: i soldi non fanno la felicità. Insomma, come diceva il mio indimenticato e indimenticabile conterraneo Gilberto Govi, a me questa ricerca della felicità sembra “in-a polenta tutta motti” “una polenta tutta grumi”. Una cosa venuta male, sotto ogni angolo di visuale.