Tra i 250mila curdi che sono fuggiti da Afrin verso il sud della Siria, c’è anche un torinese. Si chiama Jacopo Bindi, è dottore di ricerca in fisica all’Università di Torino, ha un passato da militante del centro sociale Askatasuna e due arresti sulle spalle per la protesta No Tav. Prima di arrivare in Siria non aveva mai pubblicato nulla sui media e usava i social per parlare con i suoi amici e compagni, ma quando lo scorso ottobre è arrivato lì, ha deciso di rimanere per documentare la guerra e la resistenza. E per mesi è stato l’unico italiano presente nella città siriana come civile.
“Sono qui perché ho deciso di contribuire alla rivoluzione – spiega – voglio rendermi utile diffondendo, soprattutto in Italia, le notizie su quel che succede e raccontando una rivoluzione fatta dalla gente”. E lo fa, ogni giorno in modo costante. Scrive, spiega il succedersi degli avvenimenti, pubblica le immagini o le riprese che riesce a fare con il suo cellulare. Con precisione e devozione. E tanto coraggio. “Qui siamo tutti in pericolo – racconta Bindi – la situazione non è certo facile, ma io continuo a star qui”.
Parole che Jacopo scandisce con la determinazione e l’energia dei trent’anni. Il torinese è arrivato in Siria lo scorso ottobre con un gruppo di italiani, raggiungendo zone di guerra quasi impossibili da raggiungere. Ma quando gli altri compagni sono rientrati in Italia lui ha deciso di rimanere lì. “Qui per me – spiega – c’è un esempio da dare a tutto il mondo: voglio raccontare come si può costruire una società democratica e libera e come possono convivere pacificamente tante identità, lingue e tradizioni diverse. Qui le persone si sono organizzate per avere un futuro migliore”.
In questi mesi Bindi ha documentato la resistenza, stando a fianco della popolazione curda, ospitato dalle famiglie locali. Nei giorni scorsi, quando le istituzioni locali hanno deciso l’evacuazione della città, anche lui ha lasciato Afrin. Ora è a Qamishlo, nel cantone di Cizire. “Fino all’ultimo la popolazione – racconta- non ha voluto abbandonare la propria casa e i propri villaggi, provando a resistere alle operazioni militari dei turchi e degli jihadisti. In questi mesi hanno fatto molte manifestazioni per dimostrare la loro contrarietà all’attacco. Ma poi, quando gli attacchi si sono fatti intensi e violenti, per evitare il massacro hanno abbandonato la città. Quando i jihadisti e l’esercito turco sono entrati, Afrin era praticamente vuota“.
Ora sono giorni difficili. I profughi sono senza acqua, cibo e spesso dormono in auto. “Ci sono circa 200 mila profughi e nessun aiuto internazionale – spiega – stanno organizzando tutto le istituzioni del Cantone con i mezzi che hanno. Le scuole della regione sono state messe a disposizione e le famiglie del luogo li ospitano come possono ma ancora in molti non hanno un tetto sotto cui dormire. E mancano i generi di prima necessità”.
Lo scorso 20 gennaio le forze turche, con il supporto delle milizie anti Assad, hanno iniziato l’operazione “Olive Branch” (Ramoscello d’Ulivo) per liberare Afrin dalla presenza curda. La guerra qui parte da lontano. La provincia di Afrin faceva parte della regione di Aleppo e nel 2011 i curdi presenti ottennero dal governo di Damasco il riconoscimento del loro status e quello di residenti. Con il protrarsi del conflitto i cantoni a maggioranza curda (Afrin, Kobane e Cizire) hanno dichiarato l’amministrazione autonoma e, nel 2016, la nascita di un sistema federale, che però non mette in discussione i confini dello Stato siriano.
La Turchia non ha accettato la dichiarazione e ha avviato un’operazione militare costosa e complessa contro la regione. Così, ad Afrin è iniziata la guerra. Le vittime aumentano di giorno in giorno. Lo Stato maggiore turco sostiene di aver «neutralizzato» più di 3000 persone. E per «neutralizzati» si intendono i nemici uccisi, quelli feriti o che si sono arresi. Tra loro, anche bambini. Due giorni fa le forze armate turche e i ribelli dell’Esercito Libero Siriano hanno preso il controllo di Afrin. «Arrivano immagini di saccheggi, torture – racconta – e arresti di civili rimasti in città. L’esercito turco e i jihadisti stanno ancora attaccando i villaggi nel distretto di Şerawa, tra Afrin e la regione di Şehba, dove ci sono anche vittime civili, ancora difficili da quantificare». Ma le Ypg hanno dichiarato una strenua resistenza. « Negli ultimi due giorni ci sono state due azioni – continua – nel distretto di Bilbil a Nord di Afrin». Bindi continua a stare lì, raccontando tutto quel che accade dal suo profilo Twitter (@Freepo_llo) «finché la resistenza va avanti sto qui per sostenerla».
Livia Fonsatti