“Nessuno mette i suoi figli su una barca/ a meno che l’acqua non sia più sicura della terra“, recita la più nota tra le poesie di Warsan Shire. Quello della poetessa keniota è un paradosso: l’acqua non è mai più sicura della terra, a meno che la terra in questione non sia la Libia o quella di uno dei tanti Paesi del sub-Sahara straziati dalla guerra o ridotti alla disperazione da un dittatore. In questi casi ci sono genitori che trovano persino la forza di imbarcare i propri figli malati su un gommone per mandarli a cercare salvezza in Europa e ragazzi di 22 anni macerati dall’inedia che piuttosto che restare nei lager di Tripoli preferiscono rischiare di affogare, poi poi morire appena sbarcati a Pozzallo.
Il crocevia umano delle due storie di disperazione ospitate dai quotidiani negli ultimi giorni si chiama Francesco Piobbichi: era imbarcato nella 42ma missione di Open Arms, la nave della ong spagnola Proactiva sequestrata dalla procura di Catania il 18 marzo. “Eravamo partiti da Malta – mi ha raccontato Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope, il programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, imbarcato su Open Arms – navigavamo verso la zona Sar, quando nel buio della notte ci è apparso davanti un gommoncino con tre ragazzi a bordo. Il più piccolo, Allah, aveva accanto il carrello della flebo e la flebo attaccata al braccio. Li tiriamo a bordo e mi accorgo che il ragazzino ha la bocca insanguinata e perde sangue dalle gengive. Uno dei fratelli mi dà un foglio in cui leggo che ha la leucemia“.
Il gommone non è più lungo di 4 metri. Galleggia appena, sotto il peso di dieci taniche di benzina e una trentina di bottigliette d’acqua. Il mare che nel 2017 ha ingoiato oltre 3.100 migranti ha anche ingurgitato nel suo immane silenzio imbarcazioni molto più grosse e sicure. “Allah ha 14 anni, scappava da un posto in cui non aveva possibilità di curarsi, probabilmente perché la sua famiglia non ha i soldi necessari, e non può arrivare con un visto umanitario in Italia o in Europa e allora i suoi decidono di imbarcarlo con i fratelli”.
Quel posto è la Libia: “La prima cosa che ho pensato è stata ‘adesso cominciano a partire anche i libici'”. I tunisini che arrivano a Lampedusa sono un indicatore del peggioramento della situazione nella ex colonia che il governo italiano considera un “porto sicuro” dove rimandare i migranti. “Ne sono sbarcati parecchi nelle ultime settimane – prosegue Piobbichi – fino a qualche tempo fa andavano a lavorare come stagionali in Libia perché in patria non trovano lavoro. Poi la guerra ha abbassato notevolmente il potere d’acquisto della moneta libica, quindi quando tornano in Tunisia si ritrovano in mano poco o nulla. Anche a Tripoli nelle ultime settimane ci sono state manifestazioni contro il caro vita”.
“Quindi lo scenario è questo: la disoccupazione in Tunisia e la devastazione libica hanno come conseguenza l’aumento delle loro partenze verso le coste italiane. Questo vuol dire che la Libia comincia a essere un luogo insicuro non soltanto per i migranti che dal sub-Sahara arrivano per imbarcarsi, ma anche per gli stessi libici. Considerare un Paese smembrato tra 1.700 clan, molti dei quali trafficano esseri umani, un porto sicuro dove riportare i migranti o farli riportare alla Guardia costiera libica è una bestemmia. Non fosse stato così, non ci saremmo trovati in mezzo al mare un bambino con una flebo piantata in un polso che cerca di raggiungere l’Italia”.
“Erano partiti da vicino Tripoli. Sono rimasti tre o quattro giorni in mare, sperando di incrociare qualcuno che li ripescasse. Il giorno dopo li abbiamo trasbordati sulla Sos Mediterranée“. Qui la voce di Francesco si fa insicura: “La cosa che più mi ha fatto commuovere è che questo ragazzino mi raccontava la storia di Astori, il calciatore della Fiorentina morto. E me la raccontava con un senso quasi di dispiacere per noi italiani che avevamo perso questo giocatore così giovane. E lo diceva lui in quelle condizioni, con la sacca della flebo attaccata e malato di leucemia”, dice con la voce rotta Piobbichi.
Nelle sue parole e tra le sue braccia il destino di Allah ha incrociato quello di Segen: “Poi abbiamo fatto altri due recuperi. Nel secondo mi sono trovato davanti gente in condizioni che non avevo mai visto. Erano un centinaio di persone. Hai presente quando tu pensi che una cosa sia pesante, magari 80 chili, la tiri su e ti accorgi che ne pesa 30? Ecco, tiro su un ragazzo, era bagnato e infreddolito, lo metto nella lancia per portarlo sulla nave, ma non faccio troppo caso alle sue condizioni: avverto solo la sua leggerezza. Qualche ora più tardi, me lo trovo davanti: sembrava scappato da Auschwitz. Gli faccio il segno del pollice alzato per dirgli ‘dai, ce l’hai fatta’. Poi invece arriviamo a Pozzallo, il medico lo trasporta a terra a spalla e non lo rivedo più. E il giorno dopo scopro che è morto“. Aveva 22 anni, era eritreo. I giornali gli hanno dedicato qualche articolo nei giorni scorsi, ma la sua storia non ha sfondato, non è riuscita a superare il muro dell’indifferenza che divide la maggioranza degli italiani dalla tragedia in corso nel Mediterraneo.
Una tragedia in cui Proactiva ricorda Antigone, la giovane narrata da Sofocle che sfida il potere pur di assicurare al corpo del fratello Polinice la sepoltura che il re di Tebe non vuole concedergli per motivi politici. Qui in ballo non c’è la sepoltura di Segen e Allah, ma il loro diritto a non morire di fame o di leucemia. Il contrasto è sempre quello tra il diritto dell’uomo e la legge dello Stato, tra le leggi scritte e quelle non scritte. E la domanda è una soltanto: “Cosa dovevamo fare? – mi dice come ultima cosa Piobbichi – riportarli in Libia?“.