Prima o poi doveva accadere ed è accaduto. Sono stato invitato di andare a visitare una fabbrica che si occupa di stampaggio di termoplastiche.

Siamo sempre a Pechino, anche se il centro città è a una settantina di chilometri a volo d’uccello. Bel quartiere: fabbriche, magazzini, condomini, negozi, strade ampie, ovviamente tutto pulitissimo. Montagne che fanno da sfondo. Ricorda Torino.

Sicurezza quasi inesistente. Davanti all’analogo della Palazzina Uffici sono schierate, uniforme d’ordinanza, una decina di persone. Atrio faraonico, soffitto altissimo, marmi a profusione. Devono essersi ispirati a Corso Agnelli 200. Un paio di corridoi, ampi spazi aperti, nessun ufficio privato. Sala riunioni. Tavolone esagerato, macro-schermo, proiettore. Tutte esattamente uguali.

Presentazione della fabbrica. In attività da trent’anni, specializzata in termoplastiche, clienti ovunque, tutte grandi aziende, in molti settori diversi: elettronica di consumo, aero-spazio, automotive… Quattro siti produttivi, un centro di ricerca perché tutta la R&D la fanno internamente, collaborazioni con università e centri di eccellenza. Non fosse che il materiale presentato è in mandarino, potrebbe essere un’azienda occidentale. Quante persone? Non è dato di sapere. Non ha importanza.

Conclusi i convenevoli arriva la parte interessante. La fabbrica. Un’area pulita, silenziosa, si sente solo il fischiare discreto degli attuatori pneumatici. Perfetta. Sono così le fabbriche “amate” da chi ci lavora, tenute bene non perché si aspettano ospiti, ma perché la si sente propria.

Linea di stampaggio di pannelli in termoplastica totalmente automatizzata. Dal carico della materia prima, perle di ABS, all’estrazione del componente finito. Non c’è nessuno a sovraintendere la linea. Solo tre persone in tutto che svolgono il controllo visivo finale dei pezzi. Impressionante.

Neanche il tempo di riprendersi dalla sorpresa che ci scortano a vedere la linea di assemblaggio del filtro aria. Perché in questa fabbrica non solo si fanno i pezzi per il cliente finale, ma si assemblano anche i suoi prodotti. Alla domanda del perché di tale accordo, la risposta è semplice: “Chi meglio di noi che facciamo i pezzi, può assemblarli?”. Non solo. Questo tipo di accordi mette in piedi una rete di relazioni che superano i limiti imposti dai contratti.

Breve sosta per indossare cuffie, grembiuli e soprascarpe mentre ci informano che dobbiamo passare attraverso una doccia ad aria. Si tratta di una specie uno spazio con una porta di entrata e una di uscita a tenuta d’aria, dove si viene sottoposti a un’intensa corrente d’aria che toglie di dosso polvere, capelli, forfora e altre schifezze, subito eliminate da potenti aspiratori.

Strano. Di solito lo si utilizza quando ci sono lavorazioni delicate, dove la polvere può essere un problema. Qui però producono un filtro aria da camera. Nulla di esoterico: una ventola spingente che forza una colonna d’aria dentro un filtro e un’aspirante che la disperde, debitamente pulita, nell’ambiente.

Si entra. Rumore di fondo fastidioso, elevato. Nessuna protezione acustica. Una linea di circa 35 metri con intorno un centinaio di persone disposte su quattro file: due ai lati del nastro trasportatore e dietro di loro una seconda fila di addetti che svolgono operazioni accessorie o il carico scarico delle stazioni di lavoro. Tre colori di uniforme: bianco per i montatori, azzurro per i responsabili di turno, rosa per gli addetti al controllo finale del prodotto. Una folla. Solo in un lontano passato in Occidente si aveva un così alta densità di mano d’opera. Chiacchierano fra loro, nessuno è particolarmente isterico nei movimenti. Il lavoro viene svolto in modo… rilassato.

Fioccano i commenti, soddisfatti, degli occidentali con cui mi accompagno sull’arretratezza dei processi produttivi in Cina, sul lavoro a basso costo, sul’’alienazione imperante, sulla dittatura del proletariato e via dicendo. La solita accozzaglia di luoghi comuni.

La visita continua e ci portano in una sala, parallela a quella appena visitata, dove c’è una seconda linea di montaggio, più lunga di quella di prima, su cui sono indaffarati un nugolo di tecnici di vario ordine e grado che armeggiano monitor, sonde, sensori ed è chiaro cosa stanno facendo: mettere in produzione una linea totalmente – ripeto – totalmente automatizzata.

Un’impressionante collezione di robot antropomorfi, manipolatori, magazzini di carico e scarico, attuatori, telecamere, monitor, computer. Non sono previsti posti di lavoro per umani. C’è di tutto: automi svedesi, sistemi giapponesi, statunitensi, europei e sempre, ma proprio sempre, anche la versione Made in China e non è una copia, ma un sistema nuovo, innovato, migliorato rispetto all’originale. Ispirato, ma non copiato.

Con uno dei tecnici che ci accompagna –avrà una quarantina d’anni, molto gentile, affabile, parla bene l’inglese, ha studiato anche lui al MIT, fisico di formazione- abbiamo finito per uscire a parenti. Gli ho chiesto quindi il permesso di fargli qualche domanda. Fare domande non è cosa gradita da queste parti. Fare un’affermazione però è legittimo e se quello che dici ha senso, lo confermano. Spontaneamente non dicono, però non mentono. Non gradiscono giri di parole. Frasi semplici: soggetto, predicato. complemento.

“Questa linea sostituisce quella che ci avete appena fatto vedere, vero?”.
“Sì” e aggiunge non richiesto: “…entra in produzione fra due mesi”.
“Gli addetti alla vecchia linea li mettete a lavorare sul prodotto nuovo, vero?
Sorriso del Signor Tecnico e pronta risposta, sintetica, ma efficace: “Sì”.
“Usate l’esperienza accumulata dall’assemblaggio manuale per codificare la linea di montaggio automatizzata, riducendo costi, tempi di messa a punto e rischi”.
Sguardo di approvazione: “Sì”.
“Così non licenziate nessuno e allo stesso tempo aumentate la vostra competitività?”.

Invece di un terzo “Sì” mi fa una magnifica lezione di ingegneria gestionale combinata alla robotica e ai principi fondamentali dei sistemi a economia mista.

Mi spiega per filo e per segno come hanno imparato la lezione dell’occidente; non faranno gli stessi errori; non può esserci un’economia basata solo sul terziario; il settore manifatturiero è fondamentale; la programmazione è decennale ed è concertata con le industrie clienti domestiche e con i clienti esteri; viene deciso il tasso di crescita ottimo, il margine di profitto necessario per garantire gli investimenti, le politiche per le risorse umane sono concordate con le autorità del Partito per garantire la stabilità della forza lavoro e la soddisfazione sociale; avere tanti operai è strumentale alla redistribuzione del reddito, i robot sono il massimo dell’efficienza, ma non hanno la flessibilità degli umani.

Se qualcuno pensa che debbano ancora recuperare qualcosa si sbaglia di grosso.

Ascolto. Ringrazio. A questo punto mi chiede chi io sia, come mai so queste cose sulle produzioni industriali. Racconto quanto richiesto. Ascolta e sta memorizzando tutto.

Finisce la visita. In macchina chiedo al nostro accompagnatore chi sia quel tecnico, così preparato, con cui ho amabilmente chiacchierato con tanta franchezza: “Tecnico? No tecnico. Lui è responsabile azienda, capo”. Suggerisco ai nostri rappresentanti politici, sindacali, confindustriali e dell’associazione nazionale dirigenti di venire a fare un viaggio studio da queste parti. Ne trarrebbero giovamento.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Afrin. Jacopo, italiano tra gli sfollati “Racconto la resistenza dei curdi, 200mila profughi e nessun aiuto internazionale”

next
Articolo Successivo

Trump fa cose, Trump licenzia gente. Tra schizofrenia, opportunismo e Costituzione Usa

next