Era l’inviato speciale che aveva girato il mondo quando ancora il confine tra giornalismo e letteratura era un ponte girevole; era il maestro solitario dell’avventura che aveva scritto “romanzi di Kafka e spada” (copyright Antonio D’Orrico) come La Taverna del Doge Loredan, Il segreto di Caspar Jacobi, L’ombra abitata, e nel 1985 aveva vinto il premio Campiello con La partita
Ci sono persone che arrivano e persone che appaiono. Era un tardo pomeriggio di novembre quando Alberto Ongaro, scomparso questa mattina all’età di 92 anni, mi apparve tra le luci gialle del pontile del Lido, come se fosse lì da sempre, e ci incamminammo nella nebbia per il Gran Viale. Quando due che non si sono mai visti hanno un appuntamento, fu la prima cosa che mi disse, non si sa come, si riconoscono immediatamente. Invece quando qualcuno che aspettiamo è in ritardo, ci sembra di riconoscerlo in un sacco di volti sconosciuti, dissi io. E’ vero, assentì, e più temiamo che quella persona non venga, più ci sembra di vederla dappertutto.
Quel gentiluomo dall’aria assorta, intabarrato nella sciarpa di cammello, era il ragazzo che negli anni Quaranta aveva fondato con Hugo Pratt l’albo a fumetti Asso di Picche, e poi sempre insieme a Pratt si era trasferito in Argentina; era l’inviato speciale che aveva girato il mondo quando ancora il confine tra giornalismo e letteratura era un ponte girevole; era il maestro solitario dell’avventura che aveva scritto “romanzi di Kafka e spada” (copyright Antonio D’Orrico) come La Taverna del Doge Loredan, Il segreto di Caspar Jacobi, L’ombra abitata, e nel 1985 aveva vinto il premio Campiello con La partita. Per oltre trent’anni era stato un geniale anticipatore del noir, quasi unico nel panorama letterario italiano; eppure quando il genere era diventato di moda, su di lui era sceso un cono d’ombra, i suoi titoli erano finiti fuori catalogo.
Come si spiegavano questi corsi e ricorsi? Forse con il fatto che, non diversamente dagli uomini, ogni libro ha il suo destino. O forse perché da troppo tempo Alberto Ongaro si era ritirato nella più nobile e nella più decaduta delle città italiane, a debita distanza dai salotti, dalle lobby e dalle cricchette editoriali. L’intervista durò troppo per essere una buona intervista. Parlammo a lungo dei suoi amati classici dell’avventura e dei loro personaggi: Lord Jim, Long John Silver, Martin Eden, il Capitano Achab, Athos su tutti… ma anche di due maestri dell’angoscia novecentesca a lui particolarmente cari, Malcolm Lowry e Julio Cortazar. Tra i personaggi del passato e quelli di oggi, mi disse, c’è una differenza fondamentale: quelli di oggi sanno di non esistere. O meglio, in qualche modo esistono, ma hanno bisogno di essere tirati fuori dal limbo in cui si trovano, e dove aspettano in silenzio.
Gli chiesi di parlarmi del suo metodo di lavoro e all’improvviso s’illuminò. Dal viso assorto e amaro, di patrizio veneziano nato dopo la fine della Repubblica Serenissima, saltò fuori “un sorriso di bandito”, come gli disse una volta Faye Dunaway, mentre si girava il film tratto da La Partita. Spero che non mi prenda per matto, disse Ongaro, ma non c’è niente da inventare, si tratta di cogliere per vie misteriose la vita di persone che esistono realmente, che sono esistite nel passato o dovranno inevitabilmente esistere nel futuro. Disse di sentirsi come “una sorta di campo magnetico che poteva ricevere segnali da ogni regione del tempo. Tutti gli scrittori lo sono, ed era sempre stato così.”
L’indomani la nebbia era sparita; per uno di quegli incantesimi lagunari il sipario si era alzato su una mattinata di luminosa malinconia novembrina, ideale per un servizio fotografico sui luoghi della Taverna del doge Loredan da abbinare all’intervista. La Fondamenta Tabacchi, i Tre Ponti (“Come amo questo ponte. Va in tutte le direzioni, come me.”), lo sconfinato campo Santa Margherita. C’è mai stata una locanda a Santa Margherita? si chiede Schultz, il tipografo protagonista. Secondo il vecchio tomo che sta leggendo, dovrebbe esserci la locanda del padre della bellissima Nina. Lui però non la trova, mentre io la trovai; anzi, ne trovai addirittura tre. Niente è mai come ce lo aspettiamo, se ce lo aspettiamo.
Passata la riva del Canal Grande, ecco la palazzina di Schultz: “Un edificio che ha più di qualche secolo alle spalle, non alto, di struttura orizzontale più che verticale, con un lungo porticato su cui poggia il peso della facciata principale, le strette finestre ad arco, il balcone, un insieme di vuoti che sostengono il pieno”. Un insieme di vuoti che sostengono il pieno… Anni dopo, nella trattoria che sembrava uscita da uno dei suoi romanzi, dove la mamma del padrone solo se era in vena preparava il risotto di pesce di cui Alberto era ghiotto, mi venne da concludere che era quanto accadeva sempre, nei suoi libri. Sempre i vuoti sostengono i pieni, l’ombra sostiene la luce, l’acqua specchia la terra in quei romanzi d’avventura dove le avventure non sono solo avventure, le indagini non sono solo indagini, le coincidenze non sono solo coincidenze, “perché non c’è bisogno di scrivere gialli, basta l’avventura, la vita è una detection-story.”