FOXTROT di Samuel Maoz. Con Lior Ashkenazi, Sarah Adler, Yonatan Shiray. Israele/Germania/Francia/ Svizzera 2017. Durata: 113’. Voto 4,5/5 (AMP)
Arance e soldati morti. Una sintesi che vale un Paese osservato dal talento di un grande regista israeliano, qui alla sua seconda prova otto anni dopo l’esordio Lebanon trionfatore a Venezia 2009. Foxtrot, noto ballo americano a quattro tempi, è ciò che fornisce struttura e metafora all’omonimo dramma di Maoz, Gran premio all’ultima Mostra dove figurava tra i migliori concorrenti. Beffardo quanto la danza che riporta sempre al punto di partenza, Foxtrot è un’opera che scava in profondità le categorie dell’errore, del senso di colpa e della punizione che attraversa più generazioni come da chiara matrice ebraica. Al centro è il destino di una famiglia che cambia improvvisamente alla notizia della scomparsa del figlio ventenne, militare in servizio nel cuore del deserto. Quattro i tempi per tre atti, all’interno dei quali diversi colpi di scena da non rivelare. Sotto tiro è evidentemente il nonsenso della guerra e in particolar modo l’abuso del sistema militarizzato messo in atto da Israele. A farne le spese sono i cittadini in perenne stato d’imprevedibilità, spesso vittime di errori e soprusi, se non di insabbiamenti della verità che infangherebbe la reputazione dell’esercito. L’accusa di Maoz, ex mitragliere egli stesso, è mirata, consapevole e acutissima, ma soprattutto è veicolata con l’utilizzo magniloquente del mezzo cinematografico: vertiginoso di inquadrature architettate in coerenza al contenuto, Foxtrot è infatti capace di sorprendere per fulminee variazioni ritmiche, cromatiche e stilistiche. Dal suo racconto della resilienza intrisa fra dolore e mistero buffo, emerge l’emblematicità di un’opera perfettamente specchio “drammaturgico” di un Paese estremista, contraddittorio ma anche squisitamente ironico. Per chi vuole farsi sorprendere.