Il primo ministro Benjamin Netanyahu parlando l’altra sera ad una cerimonia nella regione del Negev, è tornato sulla questione degli immigrati illegali in Israele accusandoli di “essere peggiori dei terroristi del Sinai”. Gli “infiltrati” africani sono una minaccia più temibile del terrorismo. Il premier tira dritto per la sua strada e sembra non voler rinunciare al suo piano per l’espulsione di 50mila immigrati illegali africani arrivati negli anni passati attraverso le sabbie del Sinai, anche di fronte alla decisione della Corte Suprema d’Israele che ha bloccato il provvedimento mentre cresce il movimento contro le espulsioni.
“Senza il muro costruito lungo il confine con l’Egitto”, sostiene Netanyahu, “ci troveremo di fronte a gravi attacchi da parte dei terroristi del Sinai e anche qualcosa di molto peggio, un’ondata di migranti illegali dall’Africa”. Effettivamente la barriera Egitto-Israele si estende per 242 km – dalla Striscia di Gaza a Eilat sul Mar Rosso – è stata completata in gran fretta nel 2014. Certamente l’immigrazione illegale è quasi scomparsa e gli attacchi lungo il confine sono sensibilmente diminuiti, anche per l’intervento dell’esercito del Cairo che combatte nel Sinai un’insurrezione guidata dallo Stato Islamico. Ma tagliare i canali del contrabbando di merci e umani nel Sinai non è stato abbastanza.
Negli anni che hanno preceduto la costruzione del Muro, circa 50mila africani hanno pagato prezzi esorbitanti ai beduini per raggiungere lo Stato ebraico. Nella maggior parte di tratta di eritrei e somali, in fuga dalla guerra nei loro Paesi. Ma Israele li ha considerati dei migranti economici e ha negato loro lo status di rifugiati e quindi di lavorare legalmente relegandoli “al sommerso”. L’economia di Israele è in crescita e aumenta la richiesta di lavoratori stranieri, un piano per legalizzare i richiedenti asilo sarebbe stata la soluzione più umana ed efficiente. Ma l’istigazione contro gli “infiltrati” – come li chiama il governo – guidata dai politici e dagli attivisti nazionalisti della destra l’ha trasformata in una spinta della base che Netanyahu alla fine non ha potuto evitare.
D’altronde nella visione di Netanyahu l’unico modo con cui Israele può garantire di rimanere uno Stato ebraico è quello di tenere lontano gli emigranti. La deportazione è sembrata l’unica via d’uscita per il premier, anche per venire incontro a un elettorato piuttosto inquieto per le 4 indagini che lo riguardano: le sue manipolazioni, i favori ai suoi finanziatori e alle loro aziende, le spese allegre nella residenza ufficiale. Una prima richiesta di incriminazione è già stata recapitata al Procuratore generale Avichai Mandelblit.
Netanyahu aveva già cercato di aggirare un primo scoglio con la Corte Suprema. Poiché era certo che i giudici non avrebbero permesso al governo di deportare sudanesi e eritrei nei loro Paesi di origine, erano stati avviati contatti confidenziali con vari Stati africani perché come “Paesi terzi” accogliessero gli espulsi da Israele. Alla fine erano stati raggiunti accordi segreti con Uganda e Ruanda. Per i rifugiati la dura scelta fra andarsene volontariamente con 3.500 dollari in tasca o una detenzione indefinita. Uganda e Ruanda, che oggi però negano, avrebbero ricevuto da Israele 5.000 dollari – in beni o armi – per ogni profugo accettato. Erano già stati avviati i contatti per noleggiare dozzine di aerei per questi voli.
Soltanto un paio di settimane fa sembrava finita per gli immigrati illegali. Poi il piano ha cominciato a deragliare. I primi che hanno accettato di partire volontariamente da Israele con l’incentivo al loro arrivo si sono visti maltrattare e depredare dei loro averi, per essere poi imprigionati in campi controllati dai militari locali. Il Piano è stato steso poi senza la necessaria consultazione con le Agenzie coinvolte. L’IPS, il servizio carcerario israeliano, che già soffre di un cronico sovraffollamento, ha subito annunciato di non aver posto per la detenzione (anche se temporanea) di migliaia di altri detenuti. Nello stesso tempo la piccola cerchia che sosteneva il diritto dei rifugiati ha iniziato a crescere di numero, così come le petizioni e le proteste. Solo negli ospedali mille medici si sono schierati contro il governo, oltre cento piloti e equipaggi hanno rifiutato i voli di deportazione, migliaia di insegnanti nelle scuole in agitazione. E’ a questo punto che la Corte Suprema ha sospeso il provvedimento chiedendo chiarimenti al governo Netanyahu.
All’ufficio del premier in queste settimane sono arrivate migliaia di lettere contro il provvedimento. Fra queste ce n’è una indirizzata personalmente a Benjamin Netanyahu e non può non averla notata. E’ firmata da 36 sopravvissuti all’Olocausto, avvertono il primo ministro che non si riconoscono nello Stato Ebraico che lui tratteggia per il futuro e che il suo piano di deportazione snatura l’essenza di Israele.
E’ forse presto per i difensori dei diritti umani in Israele dichiarare vittoria. Ma anche se Netanyahu riuscirà a salvare il Piano, il danno è stato fatto e le deportazioni – se avverranno – saranno accompagnate da una pessima pubblicità per lui. L’esatto contrario di cui ha bisogno mentre affronta le inchieste sugli scandali che lo riguardano e suoi stessi colleghi di partito si guardano intorno in cerca di un leader futuro. Ecco perché ciò che sembrava imminente solo qualche settimana fa adesso appare improbabile.