Per il fondatore di Forza Italia la procura di Palermo ha chiesto una pena pari a 12 anni di reclusione con l'accusa di minaccia o violenza a un corpo politico dello Stato. "Avrei dovuto chiedervi una sentenza di non doversi procedere all’inizio del processo ma non l’ho fatto anche per rispetto ad alcune decisioni della corte", ha detto l'avvocato Di Peri
Invoca il ne bis in idem, il principio che vieta di essere processati due volte per lo stesso fatto in presenza di una sentenza definitiva, e attacca i collaboratori di giustizia. Sono i punti fondamentali dell’arringa dell’avvocato Giuseppe Di Peri, legale di Marcello Dell’Utri, al processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Per il fondatore di Forza Italia la procura di Palermo ha chiesto una pena pari a 12 anni di reclusione con l’accusa di minaccia o violenza a un corpo politico dello Stato. DellUtri è imputato insieme agli ex vertici del Ros, Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, a boss mafiosi come Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, e al pentito Giovanni Brusca.
E proprio il sistema di gestione dei pentiti è stato duramente criticato da Di Peri. “I collaboratori sono uno strumento importante, ma vanno gestiti in una certa maniera. E invece nel nostro Paese innanzitutto ci sono state maglie di ingresso troppo larghe nei programmi di protezione”, dice l’avvocato alla corte d’assise di Palermo. Il riferimento è a Nino Giuffrè, ex boss che da anni collabora con gli investigatori e che, su Dell’Utri, secondo l’avvocato, avrebbe reso un crescendo anomalo di dichiarazioni accusatorie. “Se si vuole che le loro dichiarazioni siano genuine – continua il legale – bisogna isolarli sin dalle prima battute come avviene in America dove chi si pente soffre, non come da noi che possono poi uscire dal carcere, vedere i familiari”.
Poi Di Peri ha citato a più riprese la sentenza passata in giudicato che ha assolto l’ex senatore dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa per le condotte successive al 1992 (la stessa che lo ha condannato a 7 anni per le imputazioni precedenti a quell’anno). Per il legale quella sentenza rende impossibile la celebrazione del processo sulla Trattativa. Il motivo? Sempre secondo il legale, quel che conta per la configurazione del ne bis in idem non è il reato contestato – allora il concorso esterno in associazione mafiosa, ora la minaccia a corpo politico dello Stato- ma i fatti oggetto dell’imputazione. “Il fatto è esattamente lo stesso e cioè l’esistenza di quel patto politico-mafioso che avrebbe visto Dell’Utri protagonista ritenuto però inesistente da una corte d’appello e poi dalla Cassazione. Avrei dovuto chiedervi una sentenza di non doversi procedere all’inizio del processo ma non l’ho fatto anche per rispetto ad alcune decisioni della corte che in principio ha più volte detto di non essere in grado di esprimersi in una fase in cui l’istruttoria era appena cominciata”, ha detto Di Peri nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo.
“Il patto contestato a Dell’Utri – ha proseguito – è identico a quello giudicato dalla corte d’appello e dalla Cassazione. Identico, come identiche sono le fonti di prova, i testimoni, i documenti e i collaboratori di giustizia. In questo processo si è tornati sugli stessi identici temi del processo per il concorso esterno: il movimento indipendentista di Leoluca Bagarella Sicilia Libera, le dichiarazioni di Tullio Cannella, l’impegno di Cosa nostra a sostenere Forza Italia. Tutto già visto e sentito e smontato dalla corte d’appello e poi dai giudici romani”.