Le dimissioni di monsignor Dario Edoardo Viganò sono la prima seria sconfitta che papa Francesco subisce rispetto al Sistema-Curia. Se nel giugno del 2017 il pontefice argentino aveva gestito sovranamente la prova di forza del siluramento del cardinale Mueller, apparendo come chi con una parola sola rovesciava dal piedistallo chi osasse sfidarlo, questa volta si è manifestato il contrario. Il peso della situazione si misura con le parole stesse del pontefice costretto ad ammettere la “fatica”, che gli è costata accettare le dimissioni del (fino a qualche ora prima) potentissimo prefetto della Segreteria per la Comunicazione vaticana. E’ rotolata la testa di una personalità considerata in maniera assoluta un “uomo del Papa” ed è caduta perché dal seno silenzioso della Curia è partita un’ondata di opposizione di tale ampiezza da essere irresistibile.
Il gesto con cui Viganò si è messo da parte, offrendo a Francesco la sua rinuncia, è stato in realtà il sacrificio obbligato di chi intende evitare in extremis che l’onda d’urto colpisca il pontefice. Il fatto è che bisogna uscire dallo stereotipo di quanti vogliono ridurre questa fase storica della Chiesa cattolica ad un semplice gridare “Viva il Papa / Abbasso il Papa”. In effetti da anni è in corso una sotterranea guerra civile nell’istituzione ecclesiastica: sono in gioco visioni differenti dell’identità ecclesiale, delle sue norme, del ruolo della Curia e della collocazione degli episcopati. Gli scontri avvengono su campi di battaglia molteplici.
Al di là della questione specifica – la goffa pubblicazione parziale della lettera di Benedetto relativa alla collana teologica dedicata a Francesco – la rapida ascesa e caduta di Viganò va inquadrata in un contesto più ampio. La rivoluzione del sistema mediatico, attuata dall’ex prefetto della Segreteria per la Comunicazione, è da mesi oggetto di mugugni e contestazioni dietro le quinte. Viganò, personalità di notevole intelligenza, è stato percepito come bonapartista e troppo autoritario. E parecchi dubbi sono circolati sulla sua radicale trasformazione della Radio vaticana, puntando tutto sul digitale e mettendo sul binario morto le trasmissioni a onde medie e (in prospettiva) anche a onde corte, che sempre hanno “creato comunità” nel variopinto tessuto cattolico sparso per i cinque continenti.
Di fronte al drammatico passo falso di Viganò si sono mobilitati quindi non solo gli avversari abituali di Francesco – agitando come sempre il vessillo di Ratzinger – ma un fronte trasversale più ampio in disaccordo con metodi, stile e obiettivi del prefetto della Segreteria per la Comunicazione, sin qui protetto sistematicamente dal Papa. Bastino le parole del pontefice con cui nel maggio scorso, dando il suo imprimatur alla riorganizzazione in corso, tacitava i critici affermando: “Non lasciamoci vincere dalla tentazione dell’attaccamento a un passato glorioso; facciamo invece un grande gioco di squadra per meglio rispondere alle nuove sfide comunicative che la cultura oggi ci domanda, senza paure e senza immaginare scenari apocalittici”.
Esce di scena, come in un dramma elisabettiano, Viganò. Ma troppe sono le uscite di scena in questo scorcio del 2017/2018. Il cardinale George Pell, che doveva vigilare sulla regolarità e la trasparenza dei bilanci delle singole amministrazioni vaticane, ha lasciato vuoto il suo ufficio perché costretto a difendersi in tribunale in Australia da gravi accuse di abusi. A otto mesi di distanza continua a rimanere senza titolare il posto di revisore generale dei conti in Vaticano (già occupato da Libero Milone). E non si capisce quali invisibili lacci e lacciuoli impediscono al pontefice di rimpiazzarlo. Non sono più valide le esigenze, che avevano spinto il Papa a creare una figura per svolgere “revisioni specifiche” sugli enti curiali, ricevere “segnalazioni di anomalie”, proporre ”provvedimenti appropriati” in caso di irregolarità?
Tramontata è infine la prospettiva di un Tribunale specializzato dinanzi al quale denunciare i vescovi colpevoli di negligenza nel perseguire i crimini di pedofilia nelle loro diocesi. C’è una palude ecclesiastica che nel sistema curiale ma anche tra gli episcopati nel mondo blocca la strategia riformista di Francesco. Che su proposte riformatrici ci siano conflitti è naturale nella storia della Chiesa. La cattiva notizia è che la palude sta rischiando di impantanare la macchina della strategia di Francesco.
Una parola, infine, spetta nella vicenda Viganò al ruolo di Benedetto. Si è parlato di una frizione tra i due papi. In realtà l’ex pontefice non ha mosso un dito. E’ stato sollecitato da Viganò a intervenire ed è intervenuto dando ancora una volta un segnale di lealtà a Francesco: ha criticato esplicitamente coloro che, tra i conservatori, accusano il pontefice argentino di non avere una robusta formazione teologica. Che poi in una lettera riservata Ratzinger esprima contrarietà a teologi progressisti fa parte della libertà personale.
Ma non va dimenticato che è stato Francesco stesso a esortarlo a vivere una vita normale di relazioni. “Il papa emerito – disse in un’intervista al Corriere della Sera – non è una statua in un museo. Abbiamo deciso insieme che sarebbe stato meglio che vedesse gente, uscisse e partecipasse alla vita della Chiesa”. Benedetto ha continuato ad essere discreto e i suoi interventi si misurano con il contagocce. Soprattutto, come si è visto al tempo dei sinodi sulla famiglia, non ha mai dato sponda a quei cardinali e vescovi, che volevano organizzarsi intorno a lui per contrastare Francesco. Nella guerra civile sotterranea in corso nella Chiesa molti agitano il nome di Ratzinger, ma non è lui a soffiare sul fuoco.