Fondatrice di Forza Italia, vicinissima a Ghedini, più volte sottosegretaria, la nuova presidente del Senato è stata soprattutto tra quelli sempre in prima fila nella difesa di Berlusconi. Con le parole (dalle "toghe rosse" alla "dittatura mediatica") e con i fatti, come il sostegno ai ddl che ammazzavano i processi del capo. E qualche incidente personale, come quandò da sottosegretaria scelse la figlia come capo segreteria
La presidente del Senato del Parlamento del cambiamento, dei partiti che vogliono ribaltare tutto, ricorda certi vecchi fumetti di Marlene Dietrich: le ciglia lunghissime sugli occhi sempre a mezz’asta, la bocca mezza serrata. Sarebbe perfetta come soggetto di un dipinto del Settecento che ritrae l’aristocrazia in posa. Altera, rigida e quindi fedele, fino alle estreme conseguenze: compresa quella di diventare la carta di Silvio Berlusconi – al quale ha votato tutta la sua vita politica – per cassare un po’ della vecchia biografia. Non più il capo di governo che si rinchiude nella cantinetta con le vallette, ma il leader di partito che ha portato una donna alla carica più elevata, la seconda dello Stato. Le toghe rosse, il colpo di Stato, la persecuzione giudiziaria, la democrazia in pericolo, la giustizia a orologeria, la “dittatura mediatica”: Maria Elisabetta Alberti Casellati – da oggi successora di Piero Grasso, per 45 anni magistrato – ha sempre rispettato tutto il pentagramma di Forza Italia, è stata, anzi, tra i corifei che negli ultimi dieci anni, vent’anni, hanno difeso con tutto l’armamentario il capo assoluto davanti a qualsiasi intemperia.
Con le parole, soprattutto: nel 2011 Dagospia raccontava che in tre anni la Casellati, allora sottosegretaria alla Giustizia, aveva cambiato 26 addetti stampa, alcuni scartati e altri fuggiti perché non riuscivano a stare dietro “all’ansia da prestazione mediatica”. Ma anche nei fatti: fu sostenitrice e qualcuno dice collaboratrice fattiva del ddl sul processo breve – governo Berlusconi IV, ministro Alfano – che avrebbe cancellato una montagna di processi e tra questi, per coincidenza, quelli su Mills e Mediaset. Un po’ dopo, all’inizio dell’altra legislatura del cambiamento, cinque anni fa, fu tra i 150 parlamentari del Popolo delle Libertà che marciarono sul tribunale di Milano contro la celebrazione del processo Ruby. Insieme all’altra candidata alla presidenza del Senato, Anna Maria Bernini, e ad altre sue colleghe si vestì completamente di nero nella seduta del Senato del 27 novembre 2013: era il giorno in cui l’assemblea di Palazzo Madama avrebbe votato la decadenza dell’allora Cavaliere, cioè il giorno del “lutto per la democrazia” spiegarono. Per lei Berlusconi, anche dopo la sentenza in Cassazione, era innocente “e gli italiani lo sanno”. Gli altri, quelli che votavano a favore della decadenza, erano un “plotone di esecuzione“. Berlusconi non sbaglia mai: Guido Quaranta ricorda che negò perfino che il suo leader non riesca a controllarsi quando c’è da raccontare barzellette un po’ sboccate. “Mai sentito”, sbatté le ciglia.
Insofferente al contraddittorio, la presidente del cambiamento – votata oggi dal centrodestra e dai Cinquestelle – è la “berlusconiana più berlusconiana di tutte, una berlusconiana ‘senza se e senza ma’”, come la definì una volta ancora Quaranta. La ritengono, in particolare, vicina a Niccolò Ghedini, avvocato come lei, padovano come lei, leale al capo come lei. Anzi, di più: lei ha fondato Forza Italia, vinse il suo collegio in Veneto nel 1994 e da quel momento è sempre stata parlamentare, ad eccezione della legislatura dei primi governi dell’Ulivo. Nel decennio berlusconiano, il primo del Duemila, presidiò sempre il governo: da sottosegretario alla Salute in un primo momento, da sottosegretario alla Giustizia in un secondo, trovandosi a suo agio in entrambi i ruoli.
Una donna che pensa alle donne, sembra dire il suo discorso di insediamento. La sua storia dice che è favorevole alla riapertura delle case chiuse, che firmò una proposta di leggere per abolire la legge 194 sull’aborto, che disse che il via libera alla pillola abortiva Ru486 “strizza l’occhio alla cultura della morte”. Una volta Berlusconi disse che cancellare gli stupri dall’elenco dei reati era una missione impossibile ”anche in uno Stato poliziesco” e che l’unica sarebbe stata mettere un soldato accanto “a ogni bella ragazza”. Molte si indignarono, lei no: piuttosto “l’emergenza sicurezza in Italia è figlia del lassismo del centrosinistra”.
Di sicuro pensò alle donne di famiglia, però: quando lavorò al ministero della Salute, scelse proprio la figlia Ludovica come capo della sua segreteria. Tutti ripescano in queste ore la storia raccontata da Gian Antonio Stella sul Corriere ormai tredici anni fa, in cui si diceva anche degli sponsor della parlamentare tra i produttori di farmaci. L’allora capo segreteria della mamma sottosegretaria, comunque, precisò che poteva giudicarla solo chi conosceva sul lavoro e testimoniò la fatica per scrollarsi di dosso l’etichetta di “figlia di”. Mancò invece di ricordare il cursus honorum che si basava abbastanza sulla permanenza in Publitalia. E infatti qualche anno dopo – Prodi presidente – la Alberti in Casellati la disse chiara: “Altro che conflitto d’interessi: il male dell’Italia è il conflitto permanente della sinistra e del governo Prodi con la democrazia”.
Il momento della metamorfosi – quello che ora permette a Zanda di dire che garantisce imparzialità, a Giovanni Legnini di lodare il suo ha senso delle istituzioni e ai Cinquestelle perfino di votarla – è stato recentissimo e forse casuale. Quattro anni fa il Parlamento si ritrovò a un lavoro matto e disperatissimo per integrare il Consiglio superiore della magistratura con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ogni tre giorni ricordava che non si poteva andare avanti col Csm monco. Quando ci fu da fare dei nomi di una parte e dell’altra per raggiungere i tre quinti del Parlamento, Berlusconi pensò subito a lei, avvocata, specializzata in diritto canonico, docente all’università di Padova. Prese 489 voti, più di Fico oggi. Non è dato sapere se per il suo ingresso a Palazzo dei Marescialli chiese un tappeto rosso di benvenuto come fece – raccontò Lanfranco Pace sul Foglio – quando da sottosegretario si presentò in visita a Regina Coeli. Rosso non c’era, se ne trovò uno celeste. Ma di sicuro sarebbe stato meglio niente: lei inciampò e finì a terra.