“Cadute logiche” e una “cesura illogica” tra i due periodi in cui all’imputato viene contestato il medesimo reato: il concorso esterno in associazione mafiosa. In più è stato “illogicamente ed immotivatamente svalutato il sostegno elettorale di Cosa Nostra a D’Alì“. Sono le parole utilizzate dalla Corte di Cassazione nel provvedimento con cui il 23 gennaio 2018 ha annullato il verdetto della corte d’appello di Palermo a carico dell’ex sottosegretario all’Interno Antonio D’Alì, accusato di concorso in associazione mafiosa. Nei giorni scorsi gli ermellini hanno depositato le motivazioni del provvedimento con cui ordinano un nuovo processo di secondo grado. L’ex senatore di Forza Italia , accusato di avere rafforzato Cosa nostra e di aver goduto dell’appoggio elettorale della mafia, era stato assolto dalla corte d’appello del capoluogo siciliano per le imputazioni relative ai fatti successivi al 1994. I giudici, invece, avevano poi dichiarato prescritte le accuse inerenti al periodo precedente a quell’anno.
Uno spartiacque temporale che per la Suprema corte è da bocciare. “Rispetto alla gravità di tali condotte, non appare logico operare una cesura netta tra i due periodi e non attribuire alcun rilievo postumo alla vicinanza (di D’Alì ndr) a personaggi di primissimo piano nel panorama mafioso ed all’asservimento ad operazioni immobiliari ed economiche funzionali agli interessi della cosca che possono dirsi accertati”, scrive il collegio presieduto da Paolo Antonio Bruno. Il riferimento è al fatto accertato in sede processuale che D’Alì abbia “svolto attività a beneficio del massimo esponente di Cosa Nostra del tempo, Salvatore Riina, nel contempo godendo della fiducia della consorteria. Tale attività – ricordano i supremi giudici – era consistita nell’intestazione fittizia di un terreno in realtà trasferito molto tempo prima ad un esponente di primo piano di Cosa nostra che non poteva figurare quale intestatario per timore di confische. D’Alì si era prestato, prima, a mantenere la titolarità formale del terreno nonostante l’avvenuto trasferimento al mafioso e l’incasso sotto banco del prezzo e, poi, anni dopo rispetto al trasferimento di fatto, alla formalizzazione della compravendita nei riguardi di un prestanome, ricevendo il pagamento ufficiale di parte del prezzo in assegni e restituendolo in contanti, con un’utilità della cosca anche in termini di riciclaggio”.
Per la Cassazione, dunque, il fatto che l’ex sottosegretario abbia completato la restituizione del denaro a Cosa nostra nel gennaio del 1994 non può essere ritenuto uno spartiacque tra i rapporti provati con le cosche e la cessazione degli stessi. Anche perché è proprio nel 1994 che D’Alì scende in campo e si candida al Senato con il partito di Silvio Berlusconi. Per i giudici del processo di secondo grado l’appoggio elettorale “fornito all’imputato dall’associazione mafiosa in occasione delle elezioni al Senato del 1994, anche in considerazione della preponderante vittoria delle forze politiche di centrodestra non assurge di per sé ad elemento sintomatico di un patto elettorale politico-mafioso che consentisse, da un canto, all’odierno imputato di raggiungere lo scranno del Senato attraverso l’appoggio degli esponenti di Cosa nostra”. Come dire: visto che i berlusconiani presero una valanga di voti, D’Alì non aveva bisogno di siglare un patto con i mafiosi, che lo votarono di loro spontanea volontà.
“Si dubita della logicità del ragionamento della Corte palermitana – scrive però adesso la Cassazione – nel momento in cui non prende una posizione netta sulla rilevanza al supporto elettorale fornito da Cosa Nostra a D’Alì non solo nel 1994, ma anche a quello ricevuto nel 2001. La Corte non ha spiegato, infatti, se e in che termini il rinnovato appoggio del 2001 sia stato ritenuto dimostrato e le ragioni per cui esso non avesse un significato contra reo sia come concretizzazione di un accordo politico mafioso, sia in termini di dimostrazione della persistente vicinanza dell’imputato alla cosca – a dispetto degli anni trascorsi dall’ultimo sostegno – e dell’utilità di quest’ultima ad appoggiarlo nuovamente”.
Secondo i supremi giudici, dunque, gli elementi raccolti evidenzierebbero “un atteggiamento (dell’imputato ndr) non solo di per sé incompatibile con l’osservanza dei doveri istituzionali di un senatore e sottosegretario, ma altresì sintonico con la vicinanza ed il debito che gravava sull’imputato nei confronti della consorteria che l’aveva sostenuto. Si tratta di profili che l’approccio settoriale prescelto dalla corte d’appello – dice la Cassazione – non ha permesso di sceverare adeguatamente e logicamente nel suo complesso e che comunque la corte, negando la rinnovazione dell’istruttoria, non ha consentito di approfondire come sarebbe stato necessario”