REPORTAGE - L’ansia da prestazione del numero uno del regime è visibile in tutta la città. Nel Paese si respira indifferenza, malcontento e silenzio. L'affluenza rischia di essere ai minimi storici, specie dopo l'arresto di tutti gli oppositori del presidente uscente, che è l'unico candidato vero
Un piccolo manifesto elettorale annerito dallo smog penzola tristemente da un palo della corrente nel centro del Cairo. C’è scritto “Vota Moussa Mostafa Moussa” alle presidenziali egiziane. Nella scheda è accompagnato dal numero 2 e – per agevolare chi non sa leggere né scrivere – dal simbolo dell’aereo. Moussa è l’unico sfidante del presidente uscente Abdel Fattah el-Sisi in queste elezioni che molti analisti hanno accomunato a quelle russe e cinesi. Un politico di secondo piano che dopo gli arresti degli altri sfidanti del capo di stato uscente ha raccolto in tempo record le firme di 20 parlamentari, presentando la sua candidatura 15 minuti prima della scadenza posta dalla commissione elettorale. “Non gli hanno concesso nemmeno il numero 1 nella scheda”, commenta con ironia un passante ma senza farsi sentire troppo. Perché anche se queste elezioni egiziane sono un proforma per riconfermare il secondo mandato di Sisi, per l’autoritario presidente rappresentano un traguardo da prendere terribilmente sul serio: una celebrazione per la sua personalità, da un lato, e dall’altro il tentativo di contrastare i sempre più palesi malumori all’interno del potente Consiglio Militare che dal colpo di Stato del 2013 – che pose la parola fine alle aspirazioni democratiche del dopo rivoluzione – ha visto crescere la sua insofferenza verso la gestione del Paese da parte dell’ex generale.
L’ansia da prestazione del numero uno del regime è visibile in tutta la città: Vota Sisi, simbolo stella, numero uno. Il presidente della speranza. Il presidente con cui si ricostruisce l’Egitto. Il faccione del quasi-candidato unico alla presidenza svetta sui cartelloni giganti sopra i palazzi, sul grande ponte 6 ottobre, sulla Ring Road, il raccordo anulare del Cairo che in materia di traffico surclassa di gran lunga quello romano. Anche tra le maxi offerte di pizza Hut e Burger King spunta il viso sorridente del presidente. Ma a differenza delle elezioni 2014, quando l’entusiasmo popolare successivo al colpo di Stato aveva portato Sisi ai vertici della presidenza, molto è cambiato. Gli egiziani sono stravolti e sfiduciati. “Ho votato Sisi perché continui le sue riforme“, dice un elettore che preferisce restare anonimo. Ma la sua voce suona come quella di un automa. La moneta locale non consente di comprare quasi nulla perché l’ultimo accordo fatto nel novembre del 2017 dal Fondo Monetario Internazionale per rimpinguare le casse statali ha imposto come collateral la svalutazione del pound, che oggi vale tre volte meno, e il taglio dei sussidi. La povertà è dilagante perché il costo dei beni di prima necessita e delle bollette è esploso e anche la classe media rischia di essere risucchiata nel vortice dal 27 per cento di persone che vivono già sotto la soglia di povertà. Inoltre i 60mila arresti politici, le sparizioni forzate e le esecuzioni hanno creato un clima di terrore ben più forte dei decenni passati sotto Mubarak.
Così, in questo primo cupo giorno di urne (si vota sino a mercoledì), al Cairo si respirano solo il vento e, come sempre, la polvere. Si poggia sulle scrivanie delle scuole che ospitano i seggi. Quelle scuole che nel 2012, le prime presidenziali dopo la rivoluzione che elessero il Fratello Musulmano Mohammed Morsi, rappresentavano il cambiamento. Per i 60 milioni di elettori ora sono tornate a essere un rito di autoaffermazione del regime, proprio come nel trentennio del dittatore Mubarak. Un pro forma per cui non vale più la pena nemmeno mancare dal proprio posto di lavoro. Il presidente si è recato alle urne 10 minuti prima delle 9, l’orario di apertura. In giro ci sono dei piccoli cortei pro Sisi, ma le persone pronunciano ormai frase acritiche senza senso, cantando delle canzoni autocelebrative che vengono diffuse dai media di regime con una frequenza tale da lobotomizzare qualunque essere umano. A Tahrir, la piazza della rivolta del 2011, c’è un maxi schermo che manda in loop materiale di propaganda. Nei quartieri più poveri, come ha documentato il Guardian, le famiglie e i commercianti più facoltosi hanno promesso soldi e aiuti per invitare la gente a votare. Già nel 2014 gli osservatori indipendenti avevano riscontrato un’affluenza molto bassa (10-15%), smentita poi dal dato ufficiale del 47,5%. Ma questa volta potrebbe essere persino peggio.
Intanto l’opposizione è distrutta, il partito dei Fratelli Musulmani è stato messo al bando ormai da 4 anni, gli altri sfidanti, ex militari come Ahmed Shafiq e Sami Anan, arrestati. “Noi abbiamo deciso di ritirarci”, spiega l’attivista Wael Abbas, che curava la campagna di Khaled Ali, sindacalista egiziano che già nel 2012 rappresentava il candidato dell’ala laica e rivoluzionaria di Tahrir. Dopo la serie di arresti per lui non è stato più il caso di continuare. “In Egitto puoi essere arrestato per qualsiasi cosa in qualsiasi momento, non c’è più una linea tra il legale è l’illegale”. Tutti qui si guardano alle spalle, anche i reporter dopo un’espulsione sommaria fatta ai danni di Bel Trew, corrispondente del britannico Times. E allora se la paranoia del dissenso potrebbe acquietarsi ora spunta quella dell’autoaffermazione di fronte all’establishment militare. Il presidente si affida sempre di più a una cerchia ristretta di fedelissimi: tra ottobre e gennaio scorsi Sisi ha licenziato il capo di Stato Maggiore e quello dei Servizi di Sicurezza Generali, mentre alcuni membri della sua famiglia sono stati inseriti in posizioni chiave.
Le dinamiche all’interno del Consiglio Militare Supremo e l’economia, sono dunque i due grandi spettri che si aggirano nelle stanze del palazzo presidenziale. “Anche il consenso popolare è cambiato dal 2014 perché le manovre economiche necessarie per il prestito del Fondo Monetario Internazionale hanno colpito specialmente le classi medio-alte“, ci spiega Osman Sharnoubi, giornalista del quotidiano indipendente Mada Masr. “All’inizio tutti si lamentavano per i prezzi alti. La gente si chiede che fine abbiano fatto le promesse del presidente e non avverte nessun progresso economico. Sembra che nonostante i proclami del governo, se la gente non vedrà un miglioramento delle proprie condizioni negli anni a venire, la presidenza o il regime, in qualsiasi modo si voglia chiamarlo, rischierà di perdere buona parte del consenso che aveva all’inizio”.