Matteo Asioli, 34enne riminese, è arrivato nella capitale inglese nel 2007. "Quando ho deciso di trasferirmi non avevo un soldo". Poi si è laureato in management e legge presso la London School of Economics e costruito una famiglia con tre bambini insieme alla sua Laura. "In Italia, che amo, è difficile fare fruttare i propri talenti"
Ogni mattina, sbirciando quel cielo grigio fumo, forse ci pensa: ma dove sono finito? Poi riparte, su e giù come una scheggia dalla metro. Potrebbe benissimo confondersi con uno dei tanti businessman inglesi che ogni giorno affollano la City, sempre impomatati e scattanti, impeccabili nel loro abito scuro e il Financial Times sotto il braccio. Se non fosse per quella strana, e un po’ latina, routine: far colazione “con la Gazza”. Di Matteo Asioli, immigrato riminese, 34 anni, oggi diremmo che ce l’ha fatta. Anche se, nonostante l’accento british e una laurea alla London School of Economics, lui continua a sentirsi profondamente italiano. “Ma non prendetemi come esempio – continua a ripetere a chi gli chiede ossessivamente: ma come hai fatto? – ho avuto solo un gran culo”.
Può darsi, di certo non è da tutti ritrovarsi a 25 anni catapultato in uno degli studi legali più famosi e grandi al mondo. Specie per un novellino che, nove anni fa, era arrivato a Broadwalk House in punta di piedi, quasi per caso. E soprattutto senza un briciolo di esperienza. “Avevo fatto il pr in discoteca, ma non vale”, sorride. “Mi so vendere bene, è vero, ma all’inizio sono stato anche fortunato. Poi però – precisa – la laurea l’ho presa davvero, in management e legge. Quasi con il massimo dei voti”. Potrebbe sembrare soltanto la solita favola di riscatto sociale: il riminese squattrinato in cerca di fortuna, che alla fine ce la fa. Ma qui la storia assume anche i contorni rosa del romanzo d’amore, perché Matteo deve benedire soprattutto l’incontro con un’affascinante inglesina cresciuta a scrippelle e arrosticini. “E’ grazie alla mia Laura, che è mezza italiana ed è cresciuta a Pescara, se oggi sono qui. Quando ho deciso di trasferirmi, nell’autunno del 2007, non avevo un soldo. Sono finito a lavorare come commesso proprio grazie a lei. Un modo per mantenermi e fare esperienze”.
Anche se per lui non era la prima volta a Londra. “Avevo vissuto qua quasi due anni, dal 2005, come volontario per la mia chiesa. Sono cristiano, ma appartengo alla Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi Giorni. Quelli che comunemente vengono detti mormoni”. Da quel giorno di acqua sotto al Tamigi ne è passata. Oggi Matteo vive a Witham, nella Contea dell’Essex, una piccola cittadina a un’ora di macchina dalla capitale, dov’è diventato anche un punto di riferimento della sua comunità religiosa. “Ma fare i pendolari da queste parti è normale, non mi pesa”. In una casa molto british, con il giardino privato e il forno a legna in pietra, “perché senza pizza proprio non so stare”. A ricordargli il suo legame viscerale con l’Italia, libri, foto e dischi sparsi per casa, compreso un vecchio pianoforte con cui intonare, nell’ampio salotto, i grandi successi del Belpaese, da Battisti a Ligabue. E dopo Laura nella sua vita sono arrivati anche Gianluca (7 anni), Alessandro (5 anni) e la piccola Giulia, nata la scorsa estate. “Sono loro la mia gioia più grande”, confida. “Se fossi rimasto in Italia forse oggi non potrei permettermi questa vita, avere figli è diventato quasi un lusso da noi”.
Di sicuro anche in Gran Bretagna, specie dopo il voto della Brexit, l’aria si è fatta pesante. “Non sappiamo ancora come andrà a finire. Certo l’immigrazione è calata, il segnale è arrivato forte: basta stranieri. Forse aumenteranno anche le difficoltà burocratiche per noi, non sarà facile”. Ma a tornare oggi non ci pensa. “Spero mi facciano restare: ho un lavoro da professionista, mia moglie e i miei figli hanno passaporto britannico, e in fondo anche io ho dato il mio contributo economico a questo Paese. Amo l’Italia, ma oggi mi spaventerebbe farli crescere in un posto dove è sempre più difficile seguire, e far fruttare, i propri talenti. Quando avranno finito il loro percorso formativo, decideranno cosa fare. In autonomia”. Lui intanto, guardando al futuro, un’idea precisa ce l’ha già. “Ho comprato a due lire un vecchio casolare abbandonato a San Leo, nell’alta Valmarecchia. Un giorno mi piacerebbe tornare. Potrei trasformarlo in un ottimo bed and breakfast, dove far venire gli inglesi in vacanza per far conoscere anche a loro le bellezze del nostro territorio”.
Intanto l’Italia, così vicina eppure così lontana, resta quella dei piccoli piaceri quotidiani. “La spesa la faccio online. Pasta, verdure, sughi pronti, perfino la ‘nduja fresca da mettere sulla pizza. In famiglia mangiamo solo italiano, bisogna tenere alta la bandiera. Non è possibile diventare inglesi in tutto e per tutto perché la globalizzazione qua si sente molto e chiunque emigra può rimanere connesso alle proprie radici”, spiega. “La cosa più inglese che faccio? A volte mangio salsicce e uova a colazione. Però intanto – sorride – mi leggo anche la Gazzetta dello Sport”. Piccoli piaceri quotidiani, dicevamo. Abitudini consolidate. Passioni ereditarie. Come quella per il Milan. “Niente Arsenal o Manchester per fortuna, i miei figli tifano rossonero. Parlano un inglese corretto, ci mancherebbe, ma a casa ho imposto che si conversi rigorosamente in italiano. A Londra sto bene, ma alle mie tradizioni non ci rinuncio”.