Quando Marius si sveglia il primo gesto che compie è quello di controllare che nella sua baracca tutto sia posto e nessuno sia entrato durante la notte. Poi, come ogni mattina, il suo sguardo si posa sulla giovane moglie e il figlioletto che dorme tra loro sopra un giaciglio appena sollevato da terra. Quindi si alza e inizia la giornata: sette ore dietro ad un carretto che dovrà riempire con quanto, dopo un attento rovistaggio, riuscirà a ricavare dai cassonetti del quartiere che ormai percorre da anni e conosce a menadito. Poi l’appuntamento con la moglie presso il semaforo dove lei è solita chiedere l’elemosina, il pranzo frugale insieme, la spesa per la sera, il ritorno a casa, il riordino degli oggetti raccolti.
Per la polizia è un potenziale criminale, per le organizzazioni benefiche un povero, per i ricercatori un rom. Lui sa di chiamarsi Marius e di venire dalla Romania. Eppure spesso, con una sensazione di spaesamento, si ritrova sulla pelle identità multiple. E’ una delle poche eredità che gli hanno lasciato gli antenati.
Loro, fino al 1855, in Romania erano chiamati “schiavi”, di proprietà dei nobili, dei monasteri o dei cittadini privati. Novant’anni dopo vennero qualificati come “internati”. «Gli zingari – scrivevano nel 1941 gli accademici rumeni – andrebbero internati in campi di lavoro forzato. Gli dovrebbero cambiare i vestiti, radere le barbe e i capelli e andrebbero sterilizzati. Così, dopo una generazione, saremo in grado di sbarazzarci di loro. Solo in questo modo le periferie dei nostri villaggi saranno protette da un muro etnico utile per la nostra nazione».
Oggi Marius è solo uno dei 10.000 baraccati rom rumeni che abitano le periferie delle metropoli italiane, galere senza sbarre dove nascono, sopravvivono e muoiono esistenze invisibili.
Solo a Roma sono 1.200, nella provincia di Milano 2.700, un migliaio a Torino.
Nel capoluogo lombardo – secondo il recente rapporto della Caritas ambrosiana – si rileva «la presenza di insediamenti, perlopiù costituiti da tende e baracche, che, nella metà dei casi, sono sorti nelle aree più nascoste e ad alto rischio ambientale, abitati anche da gruppi inferiori ai 15 individui e comunque quasi mai superiori ai 30. In linea generale si tratta di persone appartenenti alla stessa famiglia. Il loro essere numericamente ridotti e poco visibili fa sì che il 50% degli insediamenti più piccoli (con meno di 15 persone) non sia mai stato oggetto di sgombero tra il 2015 e il 2017». In effetti l’unica strategia per sfuggire ad una ruspa comunale è quella di acquisire un’altra identità, quella del “fantasma”. Nascondersi fino a scomparire. Nell’area metropolitana di Milano – secondo il Rapporto Annuale di Associazione 21 luglio di prossima presentazione – sono stati 25 gli sgomberi forzati degli insediamenti abitati da rom effettuati l’anno passato.
A Roma, nel solo 2017, gli sgomberi sono stati invece 33. In tutta Italia ben 230. Il più recente quello segnalato a Beinasco, piccolo Comune della Città metropolitana di Torino. Settantadue persone, tra cui diversi bambini, scappati all’arrivo delle ruspe. Qualche settimana prima a Roma 250 persone rom erano state allontanate con la forza da uno stabile abbandonato. Famiglie scacciate in barba alle Convenzioni internazionali e costrette a cercare altrove un giaciglio, con condizioni di vita che precipitano vertiginosamente. Non è un caso che, secondo i risultati della Caritas ambrosiana, a Milano «il 70% dei casi non hanno accesso a servizi di base come elettricità, acqua e scarichi fognari e dove l’età media dei minori è di 6 anni e mezzo, con una frequenza scolastica del 64% per le scuole elementari. Percentuali che scendono drasticamente se si guarda al dato di scuole medie e superiori, mentre i numeri sono drammaticamente alti per quanto riguarda l’isolamento, ossia la mancanza di attività esterne al campo, dei giovani (il 63% non ha attività esterne)».
La risposta delle Amministrazioni locali nei confronti di quanti abitano le periferie estreme il più delle volte è inesistente. Altre volte ha un carattere punitivo. A Genova Marius non potrebbe sopravvivere con il suo carretto: 200 euro di multa a chi viene scoperto a rovistare nei cassonetti.
Del resto è la storia delle città ad insegnarci come sia molto più semplice, quanto inutile, combattere i poveri come Marius piuttosto che lottare contro la povertà urbana. E’ come se per proteggerci dal maltempo decidessimo di punire quanti provassero ad usare l’ombrello.