Velodyne e Aptiv, che forniscono rispettivamente i lidar (telerilevamento laser) a Uber e i sensori anti-collisione a Volvo, non ci stanno a finire sul banco degli imputati per l'incidente che è costato la vita ad una donna a Phoenix. E giurano sulla bontà dei loro prodotti, paventando l'ipotesi che siano stati mal utilizzati o addirittura scollegati al momento dell'urto. Il motivo? Testare una soluzione low cost per la guida autonoma
“Ubergate”: ormai si può definire così lo scandalo che sta investendo la società americana di car-sharing. Dopo l’incidente mortale della scorsa settimana – avvenuto durante i test notturni sulla guida autonoma -, arrivano nuove e inquietanti conferme sull’episodio e su quanto supposto dagli esperti: alcuni fondamentali sistemi di sicurezza del veicolo di prova potrebbero essere stati spenti la notte del misfatto.
In primis era “disabilitato” il sistema per evitare le collisioni, previsto come equipaggiamento standard sulla Volvo XC90 utilizzata come prototipo autonomo: a sostenerlo è Aptiv, il fornitore di radar e telecamere installate sui veicoli del marchio svedese. “Non vogliamo che la gente sia confusa o pensi che sia un fallimento della tecnologia che forniamo a Volvo, perché non è così”, ha dichiarato ad Autonews Zach Peterson, portavoce di Aptiv. Il corredo tecnico di assistenza alla guida presente sulla XC90 “non ha nulla a che fare” con i dispositivi di autonomous driving di Uber e con la fatalità occorsa, ha affermato Peterson.
Mobileye (di proprietà Intel), che produce chip e sensori utilizzati nella tecnologia per evitare le collisioni offerta da Aptiv, ha asserito di aver testato l’efficacia del proprio software di controllo analizzando il video dell’incidente Uber. La ditta sostiene che, nonostante la simulazione sia stata effettuata con un video di bassa qualità, il sistema sia stato capace di riconoscere la presenza della vittima sulla carreggiata un secondo prima dell’impatto letale. E forse anche più tempestivamente in condizioni reali.
Rincara la dose Marta Thoma Hall, presidente del gigante tecnologico Velodyne Lidar Inc., che produce il dispositivo di telerilevamento laser che è stato presumibilmente spento durante i test. La Thoma Hall esclude che il lidar possa aver fallito così clamorosamente. “Il nostro Lidar è certamente capace di riconoscere le persone su strada in situazioni come quella dell’incidente e il suo funzionamento non è influenzato dall’oscurità. Ma non può prendere decisioni da solo”, ha specificato la presidentessa, attribuendo la responsabilità sulla supervisione del test a Uber.
“Non sappiamo quali sensori erano installati sul veicolo di prova la sera dell’incidente né quali fossero attivi”, ha ribadito la Thoma Hall, specificando che “sta al sistema di calcolo dell’auto interpretare i dati provenienti dal lidar (se questo è acceso, ndr) e non conosciamo come abbia funzionato quello utilizzato da Uber”.
Affermazioni che vanno avvalorando l’ipotesi che Uber stesse testando l’efficacia della guida autonoma col minimo indispensabile dei sensori attivi, emersa delle prime ore dopo l’incidente. Perché? Probabilmente per offrire al mercato automotive un pilota automatico particolarmente economico. Peccato che, in questo caso, il risparmio abbia generato conseguenze catastrofiche.