Su un muro di una vecchia casa del Peloponneso, che un tempo era una locanda, campeggia ancora la scritta: il vino è gratis per chi racconta una buona storia. A quei tempi, il guadagno era conseguenza, non premessa della narrazione.
Mi è tornata in mente questa frase leggendo Chi “lancia” libri uccide lettori, articolo di Alfonso Berardinelli uscito sul Domenicale del Sole24 di domenica 25 marzo. Scrive il critico letterario: “Quando il mercato librario cominciò a entrare in crisi con l’arrivo dei media elettronici, il problema diventò quello di vendere. Il romanzo doveva essere visto per prima cosa come potenziale, promettente bestseller. Una merce da valorizzare, pubblicizzare, ‘lanciare’: non certo da giudicare, criticare e magari denigrare […] Guai a chi svaluta la merce e ne sconsiglia il consumo”.
La necessità di vendere romanzi, non importa se buoni o cattivi, non ha solo neutralizzato ogni forma critica; il bisogno di vendere comunque ha alimentato – e secondo me stravolto – anche la battaglia per far avvicinare alla lettura coloro che non amano i libri.
Da tempo mi interrogo sulle fatidiche frasi: “in Italia si legge poco, bisogna incrementare il numero dei lettori”. Con conseguenti nuovi festival del libro (ossessionati dai numeri dei consumatori che vi partecipano), iniziative che invitano alla lettura, presentazioni ecc.
La retorica del “bisogna leggere” – alimentata da molti in buona fede – è sostenuta vivacemente dal marketing editoriale – furbo e spesso in malafede -, a caccia di nuovi consumatori ai quali propinare indiscriminatamente ogni tipo di prodotto (anche scadente), nobilitato dal solo fatto di essere un libro.
Si è applicata al mondo della letteratura la logica dell’industria e dei grandi numeri: aumentare la domanda per aumentare l’offerta e il guadagno; creare il bisogno del libro, illudendo il supposto lettore di diventare così più colto e intelligente (non è la lettura che rende intelligenti; certe letture possono renderci più intelligenti).
Disastro: risultato di questa politica dissennata è che la domanda non è affatto aumentata – anzi, forse è diminuita perché ha ‘ucciso’ giovani lettori allergici ai diktat – ed è aumentata paurosamente l’offerta, lasciando i vecchi lettori forti – quelli a cui dovrebbero rivolgersi gli editori per vendere – paralizzati, storditi e confusi.
Un mercato bulimico, che non digerisce la merce ma la vomita, lasciando che centinaia di migliaia di romanzi, dopo una rapida apparizione nelle grandi librerie, spariscano e finiscano al macero.
Il romanzo si è dimostrato allergico a un sistema che funziona, invece, per altri prodotti.
Perché ingannare chi per il proprio benessere ha bisogno di andare in bici o di viaggiare, di andare al cinema o vedere una serie televisiva – ma anche di coltivare un giardino, di leggere un saggio, andare al pub – facendogli credere di aver bisogno di un romanzo? Magari affermando l’insensata frase che “leggere è importante”.
Ma leggere cosa? Il problema non è leggere o non leggere; è cosa leggere o cosa non leggere. E poi, perché dobbiamo leggere tutti? È come dire che tutti dobbiamo iscriverci in palestra, mentre esistono tanti modi di fare sport, così come esistono oggi molti modi di sviluppare la propria intelligenza.
È difficile estrarre dal mare delle storie di oggi qualche gemma che per noi, lettori in cerca di sollievo, possa rappresentare una boccata di ossigeno. Per questo ci rivolgiamo quasi sempre ad autori collaudati (meglio se morti) e siamo sospettosi verso le novità.
È stata applicata nel campo editoriale la stessa operazione commerciale avvenuta con successo nel campo farmaceutico, dove sono stati inventati e pubblicizzati enormi quantità di integratori per acchiappare quella massa di clienti sani che i produttori di farmaci non riuscivano a raggiungere; essendo i “malati” i consumatori abituali delle loro merci, le case farmaceutiche hanno creato prodotti vitaminici, sostanze per le unghie, la circolazione, il sonno, la pelle, i capelli, il colesterolo, la vista, l’alito, destinate ai sani. Operazione riuscitissima, visto che dalle statistiche risulta che un italiano su tre fa uso regolare di integratori e che il settore è cresciuto del 25%.
Ma questa politica nel campo editoriale ha fallito: dalle statistiche risulta che solo il 40,5% degli italiani legge più di un libro l’anno.
Gli editori dovrebbero affidarsi non a “manager sani” – visto che i romanzi, anche se molto ben lanciati, ben confezionati e pubblicizzati non si vendono lo stesso – ma a “manager medici” che capiscano le esigenze di lettori sopraffatti da infiammazioni esistenziali, virus infelici, senso cronico di insensatezza; di questi abbiamo bisogno noi malati di letteratura, affamati di storie, poesie e di romanzi. E per stare meglio siamo pronti a sborsare cifre considerevoli pur di avere quel romanzo-medicina, mentre ci teniamo alla larga dai romanzi che odorano di integratore vitaminico.
Anche Belardinelli, nel suo illuminante articolo, utilizza la metafora medica. “Non ci si rende conto”, scrive “che l’attività critica è il sistema endocrino di una società letteraria. Se si blocca o funziona male, l’intera produzione letteraria diventa obesa, inerte, pigra, afflitta dal grasso superfluo o dalle ossa fragili”.
Mi piacerebbe segnalare tra la sterminata produzione romanzesca di oggi almeno due o tre romanzi-farmaci, indicare in quale storia si trovi il principio attivo adatto a un certo male, a un certo disagio. Riuscire con fermezza a sconsigliare certe sostanze tossiche. Ma spesso davanti al mare magnum dei romanzi appena pubblicati, mi paralizzo.
Non voglio però rassegnarmi: continuerò a cercare una buona storia; sarà bello brindare con del buon vino insieme a colui che la racconterà.