Stando all'ordinanza di custodia cautelare “la condotta descritta nelle sue diverse articolazioni non può essere ricondotta a una mera adesione psicologica alla violenta ideologia estremista, ma rappresenta incitazione al terrorismo. Il suo legale: "Non ci sono vere e proprie incitazioni a commettere atti, ma per l’accusa il solo discuterne costituisce una sorta di incitamento"
Non ha voluto rispondere Elmadhi Halili, il 23enne arrestato dalla Digos di Torino come componente di un’associazione terroristica che istigava a compiere attentati e omicidi. Giovedì mattina davanti al gip Ambra Cerabona, che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare, il giovane sostenitore dello Stato islamico ha preferito non parlare. “Si sente frastornato e vuole leggere meglio l’atto di accusa prima di decidere cosa fare”, riferisce il suo avvocato Enrico Bucci. Intanto Halili resta in carcere alle Vallette di Torino nel circuito di “alta sorveglianza” A3, quello riservato agli indagati per mafia o traffico di droga, perché a Torino non esiste quello di tipo A2 destinato agli indagati di terrorismo. È in isolamento e i soli contatti che ha sono con gli operatori del carcere e la polizia penitenziaria.
Halili aveva patteggiato due anni di carcere il 26 novembre 2015 per l’accusa di istigazione a commettere atti di terrorismo. Aveva realizzato e diffuso online un documento in italiano, Lo Stato islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare, in cui descriveva in maniera apologetica la vita nei territori occupati da Daesh. Tornato in libertà dopo quella sentenza, il giovane – nato a Cirié (Torino) nel 1995 da una famiglia marocchina – ha ricominciato le sue attività passando da una fase di auto-indottrinamento a una di reclutamento e proselitismo. “Non ci sono vere e proprie incitazioni a commettere atti, ma per l’accusa il solo discuterne costituisce una sorta di incitamento”, spiega il legale. Stando all’ordinanza di custodia cautelare “la condotta descritta nelle sue diverse articolazioni non può essere ricondotta a una mera adesione psicologica alla violenta ideologia estremista, ma rappresenta una incitazione al terrorismo”. Pur senza piani esecutivi per attentati, la sua è “una condotta penalmente rilevante, anche nella misura in cui egli, studiando i manuali del kamikaze, che indicano gli obiettivi da colpire e il modo con cui effettuare gli attentati, prepara se stesso all’azione e dunque pone in essere una condotta prodromica alla commissione dei reati fine”.
Oltre alla traduzione della rivista Rumiyah, l’archiviazione di video con i sermoni del portavoce dell’Is Al Adnani e quelli con le esecuzioni compiute dai militanti del Daesh, Halili indottrinava alcune persone entrate in contatto con lui. Uno di questi è Eliamon Aristide Hermann Akossi, detto Ibrahim, giovane originario della Costa d’Avorio. “Halili agisce per convertire Akossi non a una religione, ma a una dottrina che si propone per il raggiungimento dei suoi scopi, atti terroristici”. Lo si capisce da frasi carpite dagli investigatori come: “Uccideteli tutti ovunque si trovino”. E per tutti Halili intende i nemici, cioè gli occidentali, senza distinguere tra militari e civili, ma anche i musulmani loro alleati. Per questo “è evidente la funzione che Halili rivendica per sé all’interno della associazione egli si fa portavoce principalmente nei confronti di Akossi ma anche nei confronti di soggetti occasionalmente presenti nel suo appartamento, della funzione di propaganda e di proselitismo dello Stato islamico offrendo una spiegazione dei precetti del Corano con una lettura oltranzista ed estremista, così giustificando gli attentati terroristi”. Per il gip c’erano “un’escalation e condotte sempre più preoccupanti” che hanno riaperto le porte del carcere ad Halili.