Dimenticate Facebook. La vera “ossessione” di Donald Trump, in questi giorni, non sono Mark Zuckerberg e il furto di milioni di profili social a opera di Cambridge Analytica. L’oggetto delle ire del presidente sarebbero invece Amazon e il suo proprietario Jeff Bezos. Secondo il sito di informazione Axios, Trump starebbe cercando un appiglio legale – legge antitrust o sulla concorrenza – per modificare il regime fiscale cui è sottoposta la società. Il furore del presidente sarebbe alimentato da persone del suo entourage, che temono per le sorti dell’economia tradizionale, in particolare nel settore dell’edilizia, colpito da chiusure di centri commerciali e vecchi negozi. Alla diffusione della notizia, affidata ad Axios da fonti ben informate della Casa Bianca, il titolo del gruppo di Bezos è crollato a Wall Street, con una perdita di valore, per la società, di 31,8 miliardi di dollari in un giorno solo. La perdita personale, per Bezos, è stata di 1,6 miliardi.

Questa la storia, che come si vede ha un solo fatto certo – la caduta del titolo Amazon – e molti verbi al condizionale. Per capire cosa stia davvero succedendo, bisogna allora tornare indietro di un paio di anni. L’ossessione di Trump per Amazon, e in particolare per Bezos, risale infatti ai mesi in cui il miliardario progetta la sua campagna per le presidenziali – e in cui il Washington Post, acquistato da Bezos nel 2013, comincia la sua copertura non esattamente entusiasta di quell’avventura. In un tweet del dicembre 2015, Trump scrive che “il Washington Post, che perde una fortuna, è di proprietà di Jeff Bezos, con l’obiettivo di tenere basse le tasse della sua società”. Quello stesso giorno, dieci minuti più tardi, il presidente tornava sulla questione: “Il Washington Post perde denaro e dà al suo proprietario Jeff Bezos il potere di fottere il pubblico con la bassa tassazione di Amazon”. Per essere ancora più chiaro, Trump passava alle minacce in un tweet del febbraio 2016 (ormai in piena campagna elettorale): “Se divento presidente, avranno dei bei problemi. Oh, se li avranno”.

E’ stato il finanziere e miliardario Leon Cooperman a raccontare che in una cena alla Casa Bianca, lo scorso luglio, il presidente gli chiese se Amazon potesse essere considerata un monopolio. E in questi quattordici mesi di presidenza Trump ha fatto molto poco per nascondere il suo scarso gradimento, spesso la sua furia, per il modo in cui il “Post” racconta questa amministrazione. In un’occasione Trump ha parlato di “Amazon Washington Post”, cercando di svilire il valore giornalistico della testata attraverso le sue compromissioni con le strategie di una grande multinazionale. In un’altra occasione, il presidente ha parlato di “Fake News Washington Post” e accomunato il quotidiano della capitale a quei media – tanti – che cercano di abbatterlo ricorrendo a notizie false (forse vale la pena precisare un fatto: è vero che la copertura che il “Post” ha dato di questa amministrazione è decisamente critica: in cima alla testata ora troneggia la frase “Democracy Dies in Darkness”, la democrazia muore nelle tenebre. Ma il giornale di Bezos ha comunque cercato di mantenersi su un tono più distaccato e neutrale rispetto a media come CNN e New York Times, che conducono campagne molto più sferzanti nei confronti della Casa Bianca).

L’ostilità di Trump nei confronti di Bezos, Amazon e Washington Post è quindi antica, come non è nuova la minaccia di nuove tasse per la multinazionale. Perché dunque fare esplodere il caso in modo così clamoroso proprio ora? Da un lato, con ogni probabilità, c’è il carattere, la psicologia di questo presidente, insofferente a critiche e controlli, “ossessionato”, più che dalle fortune di Amazon, dal modo in cui la stampa lo rappresenta e, spesso, lo mette alla berlina. La notizia delle possibili tasse per Amazon, fatta trapelare da fonti ben informate della Casa Bianca senza però dare alcun dettaglio specifico, vale quindi soprattutto come un avvertimento: a Bezos e a tutti quelli che in questi mesi stanno criticando la Casa Bianca. Gli attacchi non resteranno senza risposta. Trump intende reagire colpo su colpo e toccare gli interessi più profondi e personali dei suoi nemici. La mossa rivela ancora una volta, ovviamente, lo scarso rispetto per le istituzioni e la divisione dei poteri di questo presidente. Le questioni relative all’antitrust e alla concorrenza sono infatti di competenza della Federal Trade Commission (un’agenzia indipendente) e del Dipartimento alla Giustizia, che Trump in questi mesi con “piglio nixoniano” ha cercato in ogni modo di piegare ai suoi interessi. Il caso Amazon, dunque, potrebbe essere una sorta di ripetizione di quanto successo con lo stop, da parte del Dipartimento alla Giustizia, alla fusione tra AT&T e Time Warner. Quest’ultima controlla Cnn: manco a dirlo, uno dei critici più feroci di Trump.

L’ipotesi dell’avvertimento non basta però probabilmente a spiegare la mossa di Trump contro Amazon. C’è qualcosa d’altro, e di diverso. Quasi tutti gli ultimi annunci e provvedimenti hanno infatti a che fare con un rigetto deciso di uomini e strategie globaliste. Dal governo sono stati cacciati, in modo clamoroso, uomini come Rex Tillerson e Gary Cohn, che rappresentavano le teste di ponte della grande industria e finanza americana in questa amministrazione. La retorica sempre più accesa su dazi e guerra commerciale alla Cina è un elemento ulteriore di questa strategia. Trump ha bisogno di mostrare al cuore pulsante del suo elettorato che le promesse elettorali verranno mantenute, che la finanza globalizzata e la grande industria che delocalizza e i presunti alleati che approfittano del deficit commerciale saranno ritenuti responsabili delle loro azioni e della perdita di potere d’acquisto e di stili di vita dei lavoratori americani. Ne ha bisogno, Trump, nel momento in cui le sorti giudiziarie legate al Russiagate si fanno sempre più cupe, e prima dell’importante appuntamento elettorale con le elezioni di midterm. Amazon e Jeff Bezos, in questo contesto, sono obiettivi perfetti: una multinazionale, e un miliardario globalizzato e proprietario di uno dei bastioni della stampa liberal, da offrire sull’altare dell’America First.

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