Adesso la Casta trema. E non solo quella degli ex parlamentari. Perché oltre all’annunciato taglio dei vitalizi anche i super stipendi degli alti dirigenti di Camera e Senato non sono più al sicuro. E’ l’effetto del ribaltamento degli equilibri negli Uffici di presidenza di Montecitorio e Palazzo Madama. Dove il Movimento 5 Stelle, da sparuta minoranza della passata legislatura, diventa ora maggioranza relativa molto vicina a quella assoluta. Da uno a sei componenti su sedici membri nel Consiglio di presidenza del Senato. Da tre (due dopo la sospensione di Claudia Mannino nel 2017) a sette nell’Ufficio di presidenza della Camera, dove alle 16 caselle riempite oggi se ne aggiungerà una 17esima per allargare la rappresentanza al Gruppo Misto.
Per ora un piano d’azione definito ancora non c’è. Di sicuro, come preannunciato dal capo politico dei Cinque Stelle, Luigi Di Maio, “per i vitalizi non c’è scampo”. Gli assegni pensionistici degli ex deputati e senatori restano in cima alla lista delle priorità. E disporre di ampi numeri negli organi di vertice dei due rami del Parlamento, vuol dire giocare la partita in una posizione di forza. Tutte le decisioni sulle spese parlamentari, infatti, passano proprio dagli Uffici di presidenza, che ogni anno approvano il bilancio di previsione e il rendiconto. Un onere che spetta ai collegi dei questori, presidiati per il Movimento 5 Stelle al Senato dalla riconfermata Laura Bottici e alla Camera dalla new entry Riccardo Fraccaro, già segretario nella passata legislatura. Basta una modifica dei regolamenti interni, attraverso una semplice delibera degli organi di vertice, per ridefinire, in virtù del principio dell’autodichia – ossia il potere regolamentare riconosciuto a Palazzo Madama e Montecitorio a garanzia della propria autonomia rispetto alle ingerenze dei poteri esterni – come spendere e, soprattutto, cosa tagliare.
Sui vitalizi gli obiettivi del Movimento 5 Stelle sono chiari: ricalcolo contributivo di tutti gli assegni già in essere percepiti dagli ex parlamentari e innalzamento dell’età pensionabile, ai livelli dei comuni cittadini, rispetto all’attuale trattamento di favore riconosciuto ai parlamentari (65 anni con un mandato alle spalle, addirittura 60 con almeno due mandati). Ma non è tutto. Sullo scadere della scorsa legislatura, gli esponenti del M5S non hanno mandato affatto giù la decisione di lasciar scadere la delibera con la quale, nel 2014, era stato introdotto, con una decisione congiunta degli Uffici di presidenza di Camera e Senato, il tetto dei 240mila euro e una sforbiciata alle indennità di funzione dei dirigenti parlamentari. Dal primo gennaio 2018, infatti, tutto è tornato come prima. E gli stipendi sono tornati a lievitare ai livelli pre-taglio. Sul ripristino dei tetti, però, pende non solo una sentenza del Collegio d’appello della Camera che ha stabilito la provvisorietà della misura, ma anche un ricorso per Cassazione promosso da un gruppo di dipendenti. In ogni caso, non è da escludere che il Movimento 5 Stelle possa provare a reintrodurre la misura con una nuova delibera che poggi, però, su motivazioni diverse rispetto a quella scaduta. Per riuscirci dovrà cercare i numeri per arrivare alla maggioranza: serviranno due voti nell’Ufficio di presidenza della Camera; tre nel Consiglio di presidenza del Senato. Ma viste le aperture della Lega, almeno sul taglio dei vitalizi, l’impresa non sembra impossibile.