Fondata dagli indios, conquistata dagli Incas, colonizzata dagli spagnoli che dal XVI secolo l'hanno impreziosita con chiese dorate, monasteri fastosi e palazzi, oggi la capitale del piccolo Ecuador è un prezioso scrigno di bellezze riconosciuto dall'Unesco. Ha i problemi di tutte le grandi città ma per "discuterne" si è inventata una specie di festa popolare in piazza.
All’improvviso capisci che sta succedendo qualcosa, qui nel pacioso, levigato, sontuoso, centro vecchio di Quito, Ecuador, tutto piazze lustre di antichi ciotoli e chiese dorate. E’ lunedi mattina. E capita ogni lunedì mattina, salvo uragani, temporali, terremoti, eventi poi non tanto rari, catastrofi politiche, anche queste non tante rare, e un breve periodo di ferie. La città vecchia piano piano si anima. C’è un’improvvisa agitazione tra una cattedrale e l’altra, nelle strade in discesa che vengono giù dai quartieri, ma qui i quartieri alti sono quelli meno ricchi, agitazione tutto intorno dove cominciano ad affollarsi bus venuti da fuori. Gruppi di ragazzi e ragazze, tutti vestiti uguali, che dovrebbero essere divise scolastiche a seconda dell’appartenenza a questo o quell’altro istituto come si usa da queste parti, in fila per due, ordinati e allegri. E poi plotoni di poliziotti in marcia, meno ordinati degli studenti sembra. Poi una banda musicale, con i musicisti infilati dentro i loro tromboni lucidi che li avvolgono e le loro divise. Poi quelli col vestito della festa, nero, camicia bianca, cravatta scura, qualche volta una fiore all’occhiello, perfino brillantina in testa sembrerebbe, ma non è vero, hanno semplicemente capelli perfetti da queste parti, neri e lucidi naturali. Come le facce lustre e allegre, perché la carnagione india ha un invidiabile color ambrato che cancella difetti.
Piano piano si raccolgono tutti nella Plaza de la Independencia o plaza Grande, delimitata da transenne che faticano a contenere numero e veemenza e controllate da poliziotti in un inutile, ma doveroso assetto antisommossa. E quel poliziotto dall’aria severa, giovane e compreso nel suo ruolo, a reggere uno scudo di quelli che si vedono nelle manifestazioni di piazza con sopra scritto “Soy policia, y padre tambièn”, sono un poliziotto ma anche un padre, manifestate in pace. Geniale. Bisognerebbe stamparle anche sugli scudi antisommossa dei nostri poliziotti.
Bisogna trovare il posto migliore, magari sgomitando un po’, perché si possa vedere meglio lo spettacolo, la cerimonia, la festa. Che banalmente è il “Cambio de guardia”, insomma la più scontata delle cerimonie istituzionali che si svolgono a tutte le latitudini, davanti a tutti i palazzi dei re e dei presidenti. Roba da turisti. Da macchine fotografiche automatiche e telefonini branditi davanti agli occhi, da visitatori con zainetto d’ordinanza, che ci metteranno dentro?, e scaltri borseggiatori alle costole. Si fa dappertutto il cambio della guardia. Perfino a San Marino, forse. Generalmente snobbati dai locali, un po’. Quanti londinesi si affollano davanti al “Buck Palace” come chiamano la casa della regina a vedere sgambettare in parata le guardie in colbacco e qualche delegazione di beefeater? Per dire. O quanti danesi davanti al palazzo reale di Copenhagen, o quanti romani alla parata dei corazzieri, che ha certo un grande fascino, mentre io, che non sono di Roma, avrò un migliaio di foto? Fin da piccolo, fatte con l’automatica di allora. Viene il sospetto che i cambi della guardia siano fatte per i forestieri. Non qui, a Quito.
Il presidente dal 2017 si chiama Lenin Moreno, con un nome che dice qualcosa sulle sua provenienza culturale, il socialismo “oficialista” che “promette democrazia, cercherà di sradicare la povertà, promuovere il benessere sociale perfino sradicare la corruzione in quattro anni, il vero cancro del sistema politico ecuadoregno”. “Capita- mi racconta un sorridente signore dall’aria bonaria appoggiato, come me, alla transenna della piazza- che lassù sulla ringhiera alla parata dei governanti, magari un lunedì manchi qualcuno. Un ministro, un sottoministro. Poi si legge sul giornale che è stato arrestato”. Non so se quel lunedì c’erano tutti quelli che avrebbero dovuro esserci. L’America Latina non è un continente facile. E l’Ecuador condivide i problemi classici. Ha giacimenti di petrolio, di rame, è un grande esportatore di banane e cacao. Ha un’industria del turismo che sta crescendo in modo vistoso, anche se forse non controllato come dovrebbe, ma “fa fatica a distribuire in modo equo la ricchezza tra i 15 milioni di abitanti” è l’analisi sommaria del signore dall’aria bonaria. Lenin Moreno ha sostituito Rafael Correa che in due mandati presidenziali, dieci anni, aveva dovuto affrontare una crisi del settore agricolo, un paio di terremoti e la conseguente ricostruzione, il disagio diffuso per i tagli ad alcuni servizi sociali, “ma poteva andare peggio” si dice da queste parti. E si spera in Lenin che deve vedersela con un debito pubblico poderoso (comprato per lo più dalla Cina) e questo grave problema della corruzione.
Poi i governanti si ritirano, i venditori di coca cola e gelati contano gli incassi, i gruppi di scolaresche risalgono sui pullman e qualcuna delle donne con i bambini avvolti negli scialli colorati sulla schiena torna a sistemarsi su un angolo di strada, recupera un sacco, espone cipolle, pomodori, piselli per un improvvisato mercatino urbano.
Certo non te l’aspettavi. Ma non ti aspetti neanche una città come questa. E’ lunga 50 chilometri e larga solo otto, insinuata dentro una vallata tra le Ande che in anni e secoli è stata ricoperta di cubetti di Lego colorati che sono case, che partono dal fondo valle e si arrampicano su, sulle falde del vulcano Pichincha, ancora orgogliosamente attivo con il suo bel pennacchio di fumo perenne, finchè si è potuto, cioè fino a che c’è ossigeno. Perché qui si parte da 2.800 metri e, volendo si passano, i 4000. Come si fa a rendersi conto di una città lunga da Milano a Bergano e larga solo la dimensione di un paesino della Brianza? Non ci capisci nulla. Fino a qualche anno fa l’impatto era violento e chiaro, la città ti arrivava letteralmente in faccia, perché non c’era l’aeroporto moderno ed efficiente costruito nel 2013 ma una vecchia pista a cui si arrivava attraverso un lungo, affascinante, inquietante sorvolo di tutta la città. Sembrava di sfiorare i tetti perché la pista era quasi in città, ad appena 8 chilometri dal centro. Vedevi scorrere i cubetti di Lego sotto le ali quasi da sfiorarli, migliaia di cubetti, a formare un tappeto irregolare, posato dall’alto su un territorio complesso, tutto una piega. Ci abita un milione e 600mila abitanti, e si aggiungono i circa 600 mila dell’area rurale. Di notte sembrava un immenso presepe “spalmato” sulle colline. Era considerato uno degli aeroporti più pericolosi del mondo. Funzionava dal 1960 e quella volta che ci sono atterrato non è successo nulla. Il nuovo è a 18 chilometri, ha l’aspetto di un aeroporto moderno, è tranquillo, ci sono i taxi ufficiali che ti aspettano fuori e tre compagnie di navette per la città. Qualche taxi abusivo. Come a Milano. Strade larghe, traffico ordinato fino all’arrivo del trambusto cittadino. Come a Milano. Poi ti ritrovi dentro questo centro storico che l’Unesco non ha potuto non inserire nei siti patrimonio dell’umanità. E’ il meglio conservato dell’America Latina, per dire, il più ricco, il più affascinante (anche se qualche “concorrente” se la prenderà). Probabilmente una situazione geograficamente e politicamente defilata di Quito e dell’Ecuador che non è tra i grandi Paesi sudamericani, ha portato monumenti e chiese fino a noi. Così possiamo guardare magnifiche opere d’arte e leggere l’arroganza spettacolare e sfacciata dei conquistadores di quei tempi drammatici. Quito era stata fondata dagli indios locali, i “quitus” appunto, poi era stata conquistata e gestita dagli Incas che ai tempi erano una potenza e ne avevano fatto un loro importante avamposto duemila chilometri lontano da Cuzco, costruendo persino una strada che collegava le due città. Andava tutto bene, poi erano arrivati gli spagnoli. Ma della vecchia Quito non trovano nulla perchè l’ultimo re inca aveva distrutto tutto. Sebastian de Belalcazar, ne conquista solo le ceneri. La ricostruiscono, rifondandola il 24 agosto 1534 dicono le cronache, chiamandola Santiago de Quito. Niente da fare, gli indios la distruggono. Gli spagnoli ci riprovano con un altro nome, San Francisco de Quito, 6 dicembre 1534, sulle falde del vulcano Chipincha.
Come arrivarci
Uno dei tour operator più accreditati per l’America Latina è “Tour 2000” (via Martiri della Resistenza 95-Ancona) che organizza viaggi sia individuali che di gruppo. Un esempio: 8 giorni 7 notti per vedere le bellezze dell’Ecuador e della sua capitale Quito 1.490 euro in gruppo. Contatti: www.tour2000.it; tel.071-2803752