Ci sono esperienze che non ti lasciano più. Sarajevo è un limite. Un punto di non ritorno.
Una sera, durante il lungo assedio, venni chiamato da un chirurgo italiano volontario all’ospedale della città. Erano costretti a operare senza luce, usando specchi e candele. Mancava tutto, dalle medicine alle bende. All’acqua. Di tanto in tanto arrivava il materiale della Croce rossa internazionale.
C’era una piccola fabbrica di prodotti sanitari basici, in cima a una collina, oltre la periferia est. I serbo-bosniaci l’avevano bombardata più volte, ma gli operai (soprattutto donne) eroicamente resistevano, utilizzando le scorte. Il problema era portare fuori bende, cerotti chirurgici, acqua ossigenata e tutto quello che normalmente si trovava in farmacia o nelle infermerie. Per circa 400 metri la strada verso Sarajevo città era esposta al tiro dei cecchini. Insomma, una lotteria. Dove si giocava con la vita e soprattutto con la morte.
Quel chirurgo mi mostrò una culla fatta alla meno peggio con un lenzuolo – sporco, perché non funzionava più la lavanderia – che fungeva da amaca sul quale avevano poggiato un bimbo di due o tre anni: “I genitori sono stati uccisi da una granata, lui si è salvato perché la mamma lo ha protetto con il suo corpo. Ma non è bastato”. Mi mostrò i lembi stracciati di una camicia che avvolgevano il bimbo attorno al ventre. Era rosso di sangue: “Le schegge lo hanno colpito alla pancia. Ha perso molto sangue. Non posso intervenire, non posso salvarlo nelle condizioni in cui ci troviamo”. Era disperato.
D’un tratto il bimbo si svegliò dal torpore che il dissanguamento gli aveva provocato. Si lamentava. Poi, ho sentito la sua manina tirarmi la manica: “Pa’”, diceva papà, aveva paura, e io ancora oggi non mi perdono d’essere vivo, mentre lui se ne andava solo. L’ho carezzato, e continuo a ricordare i suoi occhi, che forse ormai vedevano ombre.
Maledetta guerra etnica! Il dottore non sapeva nemmeno come si chiamasse il bimbo, gli infermieri neppure, travolti dall’emergenza, dal dolore di tutti, dall’atrocità che vedevano ogni minuto, tutti i giorni, “siamo soli a morire in questa trappola”, mi rispose una giovane volontaria, studentessa universitaria di una università spezzata, distrutta.
Nell’assedio sono stati uccisi più di diecimila abitanti.
L’esercizio della memoria è straziante, se penso a Sarajevo, e alla sua gente. Quel bimbo senza nome per me si chiamerà sempre Sarajevo.