I 33 miliardi debiti di Telecom Italia diventano un affare di Stato. Anzi, una potenziale arma di ricatto, sicuramente involontaria ma da disinnescare rapidamente mettendola in mani sicure. Come quelle della Cassa Depositi e Prestiti che in queste ore sta discutendo l’acquisto di una quota di peso in Tim, fino al 5 per cento. Una partecipazione di scarsa profittabilità che per di più costerà almeno 570 milioni di euro. Somma non da poco da sacrificare sull’altare della patria con il placet insolitamente condiviso dalle stesse forze politiche che in queste ore faticano a trovare una comunione di intenti sulla formazione di un nuovo governo.
Retorica sulle infrastrutture strategiche e sul “nemico” straniero a parte, del resto, 570 milioni sono niente in confronto al rischio che il Paese correrebbe se la rete di Tim dovesse finire in mani “sbagliate”. Ovvero quelle che costringerebbero le banche creditrici di Telecom a fare i conti con il reale valore dell’infrastruttura che, sulla carta, garantisce l’onorabilità dei debiti del gruppo di telecomunicazioni. Per esempio a che prezzo sarebbe valutata la rete una volta quotata in Borsa indipendentemente da Tim, come chiede il fondo Elliott in contrasto con la linea francese che vorrebbe tenere il guinzaglio corto? A quanto ammonta la potenziale differenza di valore rispetto alla valutazione della rete che le banche creditrici hanno utilizzato per certificare l’affidabilità del loro debitore?
Dati ufficiali al momento non ne esistono, tuttavia chi ha guidato Telecom un’idea sembra averla. Per esempio martedì 3 aprile l’amministratore delegato di Tim, Amos Genish, ha dichiarato a Les Echos: “Come sosterremmo il debito del gruppo che resterà elevato, nonostante la vendita della rete, senza gli introiti di quest’ultima? La valutazione del nostro merito di credito ne soffrirebbe”. Non a caso l’ex presidente di Telecom, Franco Bernabè, in un intervento in Parlamento aveva ricordato a suo tempo che nessuna ristrutturazione o separazione della rete dalle attività di servizi può essere realizzata senza un accordo con chi detiene il debito del gruppo. E, quindi, sui relativi portatori di interesse.
La questione, insomma, è delicatissima e riguarda la Cassa Depositi per almeno due motivi strettamente interconnessi che hanno a che fare con gli interessi degli azionisti della società che gestisce il risparmio postale degli italiani: il ministero dell’Economia e le fondazioni bancarie che, oltre ad essere socie di Cdp, lo sono anche degli istituti di credito che hanno in mano il debito di Tim. E’ chiaro infatti che il sistema bancario italiano non si può permettere ombre come quelle di una potenziale svalutazione del loro credito, sia essa dovuta a una valorizzazione più realistica della rete o a una separazione netta tra debito e garanzia o ancora allo sviluppo di una rete concorrente di maggior qualità. A sua volta il ministero del Tesoro già fortemente compromesso con il Monte dei Paschi di Siena, e con lui il Paese tutto, non si possono certo permettere una nuova tempesta bancaria.
Specialmente in un momento politicamente fragile come questo, dove l’unico a beneficiare della paura di una debacle sarebbe lo stesso Silvio Berlusconi e il mondo che rappresenta, in queste settimane alle prese con una pesante sconfitta elettorale, ma anche con un ingombrante socio in affari da cacciare, cioè il francese Vincent Bollorè che con la sua Vivendi oltre ad aver cercato di scalare una Mediaset fresca di alleanza con Sky, è anche il primo azionista di Tim. Segue l’antagonista americano di simpatie berlusconiane, il fondo speculativo Elliott, che è anche azionista di Sky e che sta dando molto filo da torcere ai francesi con un’escalation iniziata all’indomani delle urne che ha spaccato gli altri fondi azionisti di Telecom. A loro si dovrebbe quindi aggiungere la Cdp con un’operazione dagli interessanti risvolti industriali, oltre che politici, visto il ruolo della Cassa nella costituenda rete pubblica in fibra targata Open Fiber che trarrebbe grande vantaggio da un accorpamento con la rete Tim. Resta da vedere il reale posizionamento del “sistema” rispetto agli americani e ai francesi, considerata l’imminente scadenza dei vertici della Cassa e di quelli del suo primo azionista, il Tesoro.