Il collaboratore di giustizia Salvatore Muto ha lanciato la sua accusa durante una dichiarazione spontanea seguita immediatamente a quella di Alfonso Paolini, accusato di essere un esponente della cosca Grande Aracri. Muto ha parlato senza dover affrontare domande o contestazioni degli avvocati difensori e della pubblica accusa. Intanto il Riesame libera i fratelli Vertinelli
Salvatore Muto, collaboratore di giustizia del processo Aemilia, non ci crede alle parole di Alfonso Paolini, accusato come lui di essere un esponente della cosca Grande Aracri, che si è appena dichiarato innocente con una dichiarazione spontanea in aula. “Lui incassava il pizzo in Emilia Romagna dagli imprenditori già negli anni della cosca Dragone, prima di passare come tutti gli altri ai Grande Aracri”, ha detto Muto nel tardo pomeriggio del 5 aprile quando sta per terminare l’udienza.
Poi ha aggiunto: “Alfonso Paolini e Giuseppe Ruggieri, il titolare dell’Italcantieri che poi è fallita, erano amici di Berlusconi e portavano assieme ai suoi figli i soldi all’estero che servivano per le tangenti, per le faccende legate a Mani Pulite”. Una frase che piomba nell’aula bunker del tribunale di Reggio Emilia attraverso la voce rocciosa del pentito, ex braccio destro di Francesco Lamanna, capo cosca di Piacenza e riferimento diretto in Emilia Romagna per Nicolino Grande Aracri assieme alla famiglia Sarcone.
Salvatore Muto ha saltato il fossato a processo in corso, il 24 settembre scorso, iniziando a raccontare dettagli inediti ai procuratori antimafia Marco Mescolini e Beatrice Ronchi e confermando con le proprie dichiarazioni l’impianto accusatorio della direzione distrettuale di Bologna. Tra i suoi racconti durante le udienze c’è l’epoca della gioventù, nel 1994, quando suo zio Salvino, poi arrestato per sequestro di persona, e l’altro zio Tommaso che gestiva gli affari sporchi tra Cutro e Vibo Valentia, giravano nel crotonese a distribuire volantini ed attaccare manifesti con sopra scritto “Vota Forza Italia”. Uno dei più convinti sostenitori di Berlusconi allora era proprio Alfonso Paolini che si impegnò personalmente, dice sempre Muto, a sostenere i due candidati di Forza Italia nel collegio di Cutro: Floriano Noto alla Camera e Gerardo Sacco al Senato.
Ma sostenere candidati alle elezioni è legittimo, portare soldi all’estero come provvista per tangenti no. Salvatore Muto ha lanciato l’accusa durante una dichiarazione spontanea seguita immediatamente a quella di Alfonso Paolini. Ha parlato senza dover affrontare domande o contestazioni degli avvocati difensori e della pubblica accusa; ha parlato con un evidente tono di risentimento verso l’ex compagno di consorteria, senza forse neppure pensare a quel nome rimasto a lungo sospeso a mezz’aria nell’aula bunker: Berlusconi.
Poi il presidente del collegio giudicante Francesco Maria Caruso ha commentato che il diritto di difesa di un collaboratore di giustizia è intrinsecamente legato alle accuse che egli muove agli altri componenti della cosca. Più queste accuse sono coerenti e verificabili più è credibile la posizione del collaboratore. Sul merito del presunto trasferimento di capitali all’estero nessuno si è invece pronunciato e neppure lo stesso Paolini ha smentito o confermato il viaggio. Per mezz’ora la sua linea difensiva, nella precedente dichiarazione spontanea, aveva giocato sulle relazioni di amicizia con personaggi importanti dalla società reggiana e parmense, da questori a carabinieri, da imprenditori di successo a dirigenti sportivi e giocatori di società calcistiche. Per dire che nessuno di loro avrebbe cenato volentieri con Paolini, come spessissimo accadeva in rinomati ristoranti, se il mite 65enne trapiantato a Reggio fosse stato in odore di mafia. Un Berlusconi in più a sostenere questa tesi, avrà forse pensato Alfonso Paolini, male non fa.
E proprio nello stesso pomeriggio del 5 aprile il tribunale del Riesame di Bologna ha deciso la scarcerazione dei fratelli Palmo e Pino Vertinelli, imputati per l’associazione di stampo mafioso e ritenuti dalla Dda di Bologna due imprenditori di spicco della cosca Grande Arcari. Residenti a Montecchio, erano rinchiusi nel carcere di Reggio Emilia dove il 22 marzo scorso erano scaduti i termini della loro carcerazione preventiva legata al reato di intestazione fittizia di beni. Ad attenderli nel piazzale del carcere, una volta usciti, erano però i carabinieri del Reparto Operativo di Modena che hanno loro immediatamente notificato una nuova ordinanza di custodia cautelare per il più grave reato di appartenenza all’associazione mafiosa di stampo ‘ndranghetistico. Quel giorno sono così rientrati in cella senza neppure passare da casa. I nuovi capi di imputazione decisi dalla procura antimafia estendono per loro, come per altri 32 accusati secondo il 416 bis, l’arco temporale dei reati commessi fino al febbraio 2018. Indagini e dichiarazioni dei pentiti hanno infatti consentito di documentare attività criminali commesse fuori e dentro il carcere anche dopo la notte del 28 gennaio 2015, quando vennero arrestate 117 persone. Quella di oggi è la terza scarcerazione in tre anni decisa dal Riesame, ricorda l’avvocato Gaetano Pecorella che tutela i fratelli Vertinelli, a fronte di altrettanti arresti. Come dire: si attende la prossima puntata.