Il 6 aprile 2016 ci lasciava il nostro collega e amico Emiliano Liuzzi. Oggi ripubblichiamo il pezzo che scrisse per ricordare uno dei cantanti che più amava a tre anni dalla morte. E usiamo le sue parole per dire: "Speriamo di vederlo spuntare da qualche parte, come se quel giorno non ci fosse mai stato"
La Vespa, Milano, l’ambulatorio, il Derby. E una J buttata sul cognome come se fosse piovuta da chissaddove. Lasciateci la retorica, forse è un valore di questi tempi grami e vite agre, per dirla alla Luciano Bianciardi, ma Enzo Jannacci ci manca. Oggi più che mai. Aveva il sapore della schiettezza, oltre all’ironia, le qualità musicali, l’orecchio e molto altro ancora. Forse, in tempi drammatici come questi, tre strofe di una canzone potrebbero portarci lì dove la lucidità l’abbiamo persa. D’altronde, per uno che cantava “l’avvenire è un buco nero in fondo al tram” 40 anni fa, dire che aveva la capacità di vederla lunga è forse poco. Probabilmente ci penserà Fabio Fazio, in qualche modo, a ricordarlo: il piccoletto di Savona aveva un’ammirazione spropositata per Enzo, e mentre era in vita, e poi anche dopo, si è dato un gran daffare perché il genio non venisse relegato, come molti stupidamente riescono a fare, a una certa milanesità. Jannacci era molto di più. Come se non bastasse tutto il resto – la citazione è liberamente tratta da Beppe Viola, fratello maggiore e minore di Jannacci – aveva quel dono che in molti, noi compresi, si ostinano a chiamare poesia. Ogni intervista era una lezione incomprensibile e per questo molto chiara.
Ha lottato come un leone, contro il tumore. Negli ultimi anni, lui che era un mangiapreti dalla nascita, via Sismondi, zona Lomellina, in arte “Lomella”, si era avvicinato anche a Comunione e liberazione, giusto per il sapore di cadere in contraddizione. Se n’è andato a Pasqua di tre anni fa. Nel tardo pomeriggio del 29 marzo. Funerali in Sant’Ambrogio, sepoltura al Famedio, poi non molto altro. Ma non gradiva omaggi da vivo, figuriamoci da morto. Nella vita ha fatto molto: lui della sua arte minimizzava. “E’ solo poetastrica”. Vai a capire se ci credesse davvero. “Una vita intera per rincorrere due o tre illusione forse è più poesia che non potetastrica. C’è della poesia, struggente, in “Vincenzina hai guardato la fabbrica, come se non c’è altro che fabbrica, e hai sentito anche odor di pulito” oppure “a nura le nere mani lo valsero a salvar” (Sfiorisci belfiore). C’è poi Via del Campo, una canzone a metà (così decise il tribunale dopo una lunga causa) tra Jannacci e Fabrizio De André. Possiamo dire, oggi, che quella di Jannacci era diversamente intensa. Dice Ellade Bandini, batterista di Faber: “Suonai una volta sola con Jannacci, ma dopo corsi nel camerino e gli dissi che solo lui era riuscito a farmi vedere “gli occhi grigi come la strada”. Ce li avevo davanti”.
Di sé diceva tutto e il contrario di tutto. Era fatto così. A volte non restava che allargare le braccia. Era strano come le sue canzoni. La sua follia correva di pari passo. Come quella volta che la moglielo seguì in strada e lo vide entrare in una cabina telefonica. Dopo un quarto d’ora d’amoreggiamento si girò e vide la moglie che aveva ascoltato tutto. “Mi ha chiamato lei”, disse. Poesia anche questa. E l’aneddoto lo raccontava bene Franca Rame, altra grande donna che, insieme a Mina, ha occupato la sua vita. Non è un caso che la signora Mazzini il primo disco tributo lo dedichi proprio a Enzino. E la sera che partì al telefono piangeva come una ragazzina anche lei. Si erano conosciuti perché quella Milano di allora per certi ambienti era città microscopica. C’era il derby dove Jannacci, direttore artistico, si inventò Cochi e Renato, Massimo Boldi, Giorgio Faletti e molti altri. C’era il triangolo delle bermude, come racconta un numero uno come è Giorgio Terruzzi quando ricorda Viola. E per triangolo intende San Sirotrotto, l’ippodromo, il Derby in viale Monte Rosa e il Giambellino. Strano posto il Derby, a un tavolo c’era il sindaco Paolo Pillitteri e poco più in là Francis Turatello, criminale che finì ammazzato nel carcere di Nuoro dopo che il carnefice gli mangiò il cuore.
Mentre però Milano è cambiata, Jannacci fino all’ultimo è riuscito a rimanere lo stesso, ma guai a farsi il verso. Correva in bilico tra la medicina – voleva fare il cardiochirurgo, studiò con Barnard in Sudafrica e negli Stati Uniti – per poi rendersi conto che alla fine era meglio l’ambulatorio, in viale Umbria, medico della mutua: era lì che incontrava le persone. Magari sarebbe diventato anche un fuoriclasse, ma ha preferito così. Incontrava la sua gente, quella cantata nelle canzoni e raccontata nelle interviste, quasi sempre un capolavoro di follia. E per questo, tutti noi che gli abbiamo voluto bene, dopo tre anni ne sentiamo la mancanza. Speriamo di vederlo spuntare da qualche parte, con la Vespa 50 special, bianca, come se quel 29 marzo 2013 non ci fosse mai stato.
*articolo pubblicato su il Fatto Quotidiano il 28 marzo 2016