Manca tanto così allo psicodramma. La pistola dello start, ancora una volta, è stata impugnata da Matteo Renzi, ex presidente del Consiglio ed ex segretario, ex tante cose ma sempre presente, che continua ad aleggiare come il fantasma di Canterville e continua a muovere pedine, uomini, decisioni. Un comportamento che, in modo quasi inedito, fa irritare pubblicamente il suo principale rivale alle primarie stravinte nel maggio scorso, Andrea Orlando, che su Twitter ingaggia un duello con uno dei peones renziani e poi risponde a molte delle obiezioni dei sostenitori dell’ex capo. “Renzi deve decidere” aveva detto in mattinata il ministro della Giustizia: o ritira le dimissioni o lascia guidare il partito a chi ne ha la responsabilità, cioè il reggente Maurizio Martina. Anzaldi lo incalza: vorresti che si ritirasse a vita privata, come Di Maio? No, risponde Orlando, ma fare una riunione con tre dei quattro delegati del Pd alle consultazioni al Quirinale e senza Martina (proprio senza Martina) dà un “messaggio ben preciso che sono certo non ti sfuggirà”. La situazione è al limite della gestibilità e questo fa sì che qualsiasi offerta di trattativa che arriva dai Cinquestelle diventi difficile anche solo da valutare.
La giornata di Orlando su twitter fa da sintesi, probabilmente. Il ministro ha risposto a numerosi utenti che gli hanno scritto al ritmo di #senzadime, l’hashtag dei simpatizzanti del Pd contrari a una qualsiasi intesa di governo. “Martina ha detto chiaramente niente accordi con M5s e opposizione… – dice una tra gli altri – Orlando invece sta creando solo confusione”. E Orlando risponde: “Io non voglio fare nessun accordo. Voglio solo sapere se è ancora in carica Renzi o se dirige Martina. Basta saperlo”. Replica anche a Carlo Calenda e Sandro Gozi, rispettivamente sulla necessità di una svolta a sinistra e su un accordo in Europa con En Marche di Macron.
Magari alle volte basta chiedere prima di twittare. Non mancherà occasione.
— Andrea Orlando (@AndreaOrlandosp) 6 aprile 2018
Caro Sandro, nessuno di loro però mi pare abbia deciso di uscire dal Pd. Dopodiché non penso che quell’esperienza sia replicabile in Italia.
— Andrea Orlando (@AndreaOrlandosp) 6 aprile 2018
Io non voglio fare nessun accordo. Voglio solo sapere se è ancora in carica Renzi o se dirige Martina. Basta saperlo.
— Andrea Orlando (@AndreaOrlandosp) 6 aprile 2018
Resta da capire come fa il Pd, messo così, a rispondere qualcosa a Di Maio. Il capo politico del M5s aveva scelto proprio il Partito democratico come interlocutore preferito, puntando peraltro – come ha detto alla fine delle consultazioni al Quirinale – al Pd “nella sua interezza“. Ecco, proprio l’interezza è il requisito che oggi, di sicuro, latita.
Qualcosa sembra muoversi, chissà in quale direzione. Prima del primo giro di consultazioni al Quirinale i gruppi parlamentari del Partito Democratico non si erano riuniti: lo aveva chiesto Dario Franceschini, ma gli era stato risposto di no, perché la linea è già decisa, quella della direzione nazionale di metà marzo, cioè quella di stare all’opposizione, all’opposizione di qualsiasi cosa, anche se ancora non c’è una maggioranza. Ora, invece, anche se era già stato annunciato, i gruppi parlamentari si riuniranno prima che la delegazione dei 4 (Martina, Orfini, Delrio, Marcucci) torni a confrontarsi con il capo dello Stato. E lì è inevitabile che cominci il braccio di ferro tra la corrente del dialogo con i Cinquestelle e quella della chiusura totale: uno scontro che si aprirebbe, dunque, molto prima dell’assemblea che dovrebbe riassumere tutte le battaglie incrociate e che si terrà entro la fine del mese.
Per questo il reggente Martina cerca di tenere insieme tutto, con molta fatica. “Chiedo di fermare discussioni e polemiche sbagliate e di rimanere concentrati sul nostro lavoro – dichiara – Continuo a pensare che al Pd non servano conte interne e penso che l’assemblea debba essere il momento della consapevolezza e del rilancio. Chiedo unità e offro collegialità, perché abbiamo bisogno di questo e non di dividerci. Penso che lealtà e autonomia siano impegni essenziali per chi deve guidare una comunità. Il tema non è un reggente o un candidato, ma il futuro del nostro progetto. Quindi prima di tutto le idee”. La cartolina, pare di capire, sembra diretta a tutti, ma ha le fattezze del messaggio in bottiglia in particolare a Renzi. E infatti Lorenzo Guerini, coordinatore della segreteria, braccio destro di Renzi, tra i più diplomatici, cerca di buttare il pallone altrove: “Io consiglierei a tutti, a partire da me stesso, di darci una calmata – dice – Siamo dentro una complicata fase d’avvio di legislatura in cui emerge con chiarezza l’arrogante debolezza dei presunti vincitori. Nello stesso tempo abbiamo davanti a noi, come Pd, scelte importanti che affronteremo in assemblea”. “Senza personalismi, senza tatticismi, senza egoismi, senza esasperazioni” si raccomanda Guerini.
Tutti sono nervosi e tutti invitano alla calma, come sull’aereo più pazzo del mondo. Si aggiunge il presidente del partito Matteo Orfini: “Non abbiamo certo bisogno di alimentare tensioni e polemiche interne, che già tanto male hanno fatto in passato al Partito Democratico. In queste ore delicate stiamo lavorando per preparare la sfida del rilancio del Pd durante una legislatura in cui saremo minoranza in Parlamento, con l’obiettivo di tornare maggioranza nel Paese”.
Renzi tace, anche perché per ora la strategia “dell’arrocco”, la chiusura totale a qualsiasi patto di governo, regge o, anzi, si fortifica. Il Pd deve aspettare, deve far consumare M5s e centrodestra, è il ragionamento che ha ripetuto ai suoi parlamentari: “Per quanto mi riguarda – dice ad alcuni senatori secondo un retroscena dell’agenzia LaPresse – non farò uscire pubbliche fino al 21 aprile quando parlerò in assemblea”
E infatti i deputati che si rifanno alle posizioni di Orlando ricordano che le “tensioni e le polemiche” di cui parla Orfini non sono figlie del caso. “Il coro di polemiche scatenato dai renziani – scrivono cinque parlamentari – in alcuni interventi con toni sgradevoli e volgari e nel solco di attacchi personali che eludono le questioni politiche poste con trasparenza, ha evidentemente lo scopo di eludere la questione vera, che riguarda, ovviamente, non il diritto di Renzi di dire ciò che pensa, ma il suo tentativo palese di continuare a dirigere il partito, trattando la collegialità come una mera finzione di scena. È questa finzione che danneggia il Pd”.