di Giulio Scarantino
Canzone contro la paura non è solo il brano di Brunori Sas ma anche uno dei pezzi della playlist della campagna elettorale del Pd, così come “contro la paura” è il ruolo rivendicato dal partito di centrosinistra ad iniziare dalla propaganda per il referendum fino ad arrivare al discorso post-voto del 5 marzo dell’ex segretario Matteo Renzi. Gli altri la paura, il disfattismo. Loro la speranza, la conciliazione. La sconfitta dovuta a un sentimento irrazionale.
Un’argomentazione che in questi giorni però si ripercuote sul Pd, lasciando spazio all’idea della metamorfosi dal partito della speranza al partito della paura e del rifiuto. Si, perché il rifiuto del Pd a sedersi al tavolo con il M5S non può che essere dettato dalla paura di una proposta indecente.
La paura di un invito dei Cinque Stelle che difficilmente può essere rifiutato. O quantomeno, un rifiuto che con più difficoltà può essere giustificato di fronte al proprio elettorato, qualora dovessero scoprire che i temi proposti dai grillini non sono poi così malvagi. Questa riflessione troverebbe conferma nelle motivazioni addotte dal Pd, del rifiuto di qualsiasi dialogo con i Cinque Stelle. Uno dei motivi, primo su tutti, sarebbe Di Maio. Infatti è stato fortemente criticata l’imposizione del leader del Movimento Cinque Stelle a essere lui l’incaricato a formare il governo, in quanto maggiormente votato dal popolo. Avrebbe cioè ricordato i tempi bui della rivendicazione dell’investitura popolare. Di Maio prendendo soltanto il 32% non rappresenterebbe tutti gli italiani al voto. Una censura condivisibile se non fosse che ad averla fatta è il Pd. Infatti avvalorando un simile ragionamento, c’è da chiedersi perché cinque anni fa sempre lo stesso partito chiedeva un appoggio esterno per Bersani al Movimento Cinque Stelle che aveva preso quasi gli stessi voti. Se parliamo di lesa democrazia per la richiesta di Di Maio si cade in errore: questo non può voler dire che non sia una posizione opinabile, ma neanche che sia motivo ostativo di sedersi ad un tavolo.
Insomma se si osserva bene, a parte le differenze lessicali e i diversi numeri dettati dalle finzioni giuridiche della legge elettorale, non c’è poi così tanta differenza tra i punti programmatici di Bersani e il contratto di Di Maio. L’altro motivo dirimente sulla impossibilità del dialogo con il M5S sarebbe la sua ambiguità, cioè la sua apertura su entrambi i fronti: da un lato Lega e da un lato Pd. Due mondi opposti affermano. Come può una forza politica avere affinità con partiti diversi si chiedono. Ecco forse una risposta potrebbero darla proprio loro che dal 2011 a oggi hanno governato con tutti: Forza Italia, Scelta Civica, Ala, Nuovo Centro Destra. Vedere stupirsi il Pd, per la possibilità di trovare convergenze anche con partiti ontologicamente diversi è giusto un attimo buffo.
Infine ultimo grande scoglio per non potersi sedere a un tavolo insieme, sarebbe stata l’opposizione troppo dura, priva di qualunque collaborazione e a volte anche offensiva. Quella stessa opposizione che il Pd sta già iniziando a fare rifiutando qualsiasi tipo di incontro. Fino a ora l’ambiguità e l’autoreferenzialità del Movimento Cinque Stelle, sono stati l’argine della scomparsa del Pd di Renzi. L’incontro potrebbe dire il contrario. Ecco che Renzi riunisce i suoi e impone il suo rifiuto per la paura di finire. Il rifiuto non di un’alleanza ma di un incontro. Nel Pd si intrecciano paure: quella di essere presi alla sprovvista da una proposta indecente ancor più di quel famoso Rodotà, la paura di diventare alibi perfetto per il bacio tra Di Maio e Salvini. La paura di non riuscire, qualora ci fosse, a smascherare il piano dei grillini. La legittima voglia di sfregarsi le mani e ripagare con la stessa moneta gli acerrimi rivali: sancendo la metamorfosi da partito “contro la paura” a partito della vendetta e del risentimento.
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