Ramon schiuse gli occhi. Erano due punti neri. Sembravano fissare il vuoto. Guillermo si chiese qual era la speranza che lo ancorava alla vita. Si domandò perché Ramon non dicesse quello che sapeva, quello che i militari gli chiedevano con tanta violenza. Singhiozzò. Singhiozzò perché immaginò che la tortura fosse capitata a lui, pur di salvarsi avrebbe elencato nomi alla rinfusa, magari salvando qualche amico e indicando vicini di casa antipatici ma innocenti. Sì, se gli avessero applicato gli elettrodi per torturarlo, avrebbe fatto il nome di Faustino, il tecnico della Tv. Quello stronzo non aveva fatto credito al padre quando si era guastata la televisione di casa. Erano rimasti una settimana senza notiziari, film e partite di calcio. Il suo nome sarebbe stato il primo. Accarezzò Ramon. Poi pianse. Pianse perché si scoprì vigliacco.
Il profumo dell’ultimo tango (Historica Edizioni), terzo romanzo del giornalista latinense Gian Luca Campagna – organizzatore, tra le altre cose, del festival Giallolatino – è un noir atipico nel panorama italiano che oscilla tra i dolorosi ricordi dell’Argentina e un presente che vorrebbe proiettarsi verso il futuro.
Chi tiene legata la linea della Storia è l’investigatore Josè Cavalcanti, personaggio bizzarro e borderline che a tratti ricorda il protagonista di Molto prima del calcio di rigore (Draw Up, 2014), primo romanzo di Campagna, dedicato all’impresa del Latina, a un passo dal sogno della serie A, sfumato all’ultimo.
Anche in quest’ultimo romanzo c’è il calcio, quello dei Mondiali del 1978, quando in Argentina gli oppositori (e non solo) della Junta Militare venivano prelevati a casa nel cuore della notte da oscuri individui, nascosti a bordo di Ford Falcon senza targa e fatti sparire nel nulla. È il dramma dei desaparecidos, una delle vicende più disgustose accadute nel Paese sudamericano nel Novecento.
È da qui che Cavalcanti, nel 2018, inizia la sua indagine. Altre persone scompaiono e l’investigatore – capace di trasformare il suo minuscolo appartamento in un’alcova per buongustai quando è l’ora del pranzo, malinconico ascoltatore di tango notturni e spalla su cui piangere per operai e immigrati di vecchia generazione – si dovrà muovere in una Buenos Aires contemporanea per nulla scontata e ricca di insidie e di profumi nostalgici.
Con uno stile cinematografico che deve molto alla penna di mostri sacri del genere – penso soprattutto a Rolo Díez, José Pablo Feinmann e Manuel Vázquez Montalbán – Il profumo dell’ultimo tango è un romanzo originale, frutto della sincera ricerca sul campo del suo autore. I nodi narrativi si dipanano in modo avvincente attraverso l’utilizzo dei ricordi e dei successivi colpi di scena relegati al presente. Senza dubbio un’opera completa e matura che si distingue da altri tentativi analoghi e che presenta una fresca e sincera dose di umorismo e di rabbia.
In Puglia abbiamo oltre il cinquanta per cento dei disoccupati nell’età che va da quindici a ventotto anni, ed è un problema devastante. È un problema devastante, Francesco, e tu lo sai bene. Senza il lavoro il Paese muore e questi cincischiano sulla legge elettorale per la riforma del Senato. Ma che sceneggiata è? Per andare appresso a queste cazzate ci si scorda del lavoro, nessuno si preoccupa di regolamentare le forme di contrattazione, coccoccò, cicciricì, quaquaquà… Poi, come ben sai, ormai anche al Nord provi a mandare curriculum e nessuno chiama. I cinesi si sono impossessati di tutte le attività produttive, vai a vedere a Prato, vai. Il tessile è nello loro mani, perché loro sì, loro sì che sono flessibili come la verzella.
Ironico, giustamente cattivo, impavido, sperimentale e gustosamente gergale il nuovo romanzo di Francesco Dezio, La gente per bene è pubblicato da una altrettanto coraggiosa casa editrice, TerraRossa Edizioni, la quale – da quando è stata fondata l’anno scorso da Giovanni Turi – sta sfornando una serie di libri molto belli.
La gente per bene potrebbe essere riassunto come “la storia di uno di noi”; parlo delle migliaia di giovani e meno giovani che, specializzazioni e lauree o meno, arrancano nel sempre più inumano e grottesco mondo del lavoro. Ed ecco che la provincia del Sud diventa esempio appropriato di ciò che capita (con sfumature naturalmente variegate) da Aosta a Palermo, per chiunque si debba scontrare con il mostro del precariato e del no future.
Una politica incapace di capire e carpire il popolo, generazioni di nonni e padri costretti a convivere con i propri scheletri nell’armadio (memorabile il profilo di nonno Theo, fascio-comunista per necessità, con la sua dose di abbandoni, emigrazioni, servilismo e orgogliosa indipendenza dipendente), disparità e ingiustizie sociali sono i temi affrontati dall’autore.
A tratti il romanzo potrebbe essere interpretato come un sano e riuscito esempio di letteratura post-industriale dove è possibile leggere il debito nei confronti di Ottiero Ottieri, Luigi Davì e soprattutto Luciano Bianciardi.
Tuttavia, rispetto ad altri libri contemporanei che a loro volta navigano nel mare della riduzione degli addetti ai lavori (su tutti quelli scritti da Massimiliano Santarossa, straordinario narratore del profondo Nordest) in La gente per bene traspare una rabbia tutta mediterranea, capace di far emergere spicchi di luce e colore anche quando l’argomento è devastante e cupo come quello della disumanizzazione del mondo del lavoro e dell’incapacità di trovare una strada umana e logica che ci possa portare verso un futuro se non proprio radioso, almeno di pseudo-tranquillità quasi quotidiana.