L’8 aprile è una data fondamentale per il popolo romanì. Dopo la fine della seconda guerra mondiale e lo sterminio di rom e sinti da parte dei nazifascisti nacque in Europa un movimento che nel 1971 promosse il primo congresso mondiale, nel quale intellettuali e attivisti rom hanno definito le basi della nostra autodefinizione: non siamo zingari, siamo Rom, cioè uomini, un popolo con una bandiera e un inno. Da quel congresso nacque la Romani Union, riconosciuta nel 1979 dall’Onu. Da allora si celebra la Giornata internazionale del popolo rom, il Romano Dives, il giorno dell’autodeterminazione, dell’orgoglio e dell’unità di un popolo che solo in Europa conta più di 12 milioni di persone. Da allora molti lavorano, superando le barriere del pregiudizio e dell’odio, nell’idea che la nostra storia e la nostra identità devono essere raccontate da noi stessi, che la nostra identità è nelle nostre mani.
E ora, nel 2018 in Italia, celebrando questa giornata e guardando le nostre comunità cosa vedo? C’è chi ci considera solo bande di pezzenti che nella migliore delle ipotesi se non delinquono chiedono la carità, in ogni caso molestano i bravi cittadini, e chi invece con l’aria di chi ci tende una mano caritatevole ci dice che siamo senza storia, senza cultura e senza identità ma solo poveri da accudire. In un caso e nell’altro nessuno vuole riconoscerci per quello che siamo. E questo avviene in barba alla Costituzione (art.3 e 6), alla Convenzione-quadro sulle minoranze nazionali del Consiglio d’Europa (art.5 e relativa specificazione del Comitato degli esperti a proposito della minoranza di rom e sinti), legittimando la discriminazione anche a livello istituzionale, permettendo all’antiziganismo di assumere dimensioni pervasive nella società italiana.
Ma tra chi ci considera delinquenti genetici e chi ci considera miserabili da accudire io preferisco i primi. Sì, perché per me i primi sono chiari e riconoscibili. Sono gli stessi che in diversi momenti storici ci hanno perseguitato e sterminato e ai quali, con enormi sacrifici anche di vite umane, siamo comunque sopravvissuti. I secondi invece, con le loro associazioni si mettono in fila per gestire la nostra miseria assorbendo i ricchi fondi messi a disposizione per contrastare la discriminazione nei confronti dei rom e per favorirne al contrario l’inclusione sociale, mettendosi loro a definire chi siamo, come siamo, cosa vogliamo e cosa è meglio per noi. Se i “cattivi” svolgono bene il loro compito e i buoni hanno la faccia buona e i denti da vampiro, allora non c’è da sorprendersi se negli ultimi anni la condizione delle nostre comunità sono
drasticamente peggiorate.
Alle condizioni di marginalità e alle varie “mafia capitale” si aggiungono tesi singolari come la de-etnicizzazione della miseria. È una moda, nuova per modo di dire. Estrapolata da un concetto e un contesto più complesso e trasformata con superficialità in un semplice: non sei un rom, non sei un sinto, sei solo un povero che vive nella merda. Ci pensiamo noi e quindi giù ricerche, pagate, progetti di assistenza, pagati, raccomandazioni alle istituzioni europee, pagate. Che di questo flusso di denaro l’unico a non avvantaggiarsi sia lo “zingaro” non importa a nessuno. In questo quadro, con il mutamento del clima politico, il crescere dell’intolleranza e del rancore sociale, cosa ci aspetta?
Io proporrei ai nuovi governanti di metterci alla prova. C’è un ufficio governativo istituito su mandato europeo, l’Unar, che ha formulato una Strategia nazionale per l’inclusione di rom, sinti e caminanti approvata dal governo italiano e rimasta a ora praticamente lettera morta e ha il compito di gestire i fondi che vengono dall’Europa per i rom. Bene, smettiamola con un assistenzialismo che favorisce gli assistenti e deresponsabilizza gli assistiti, responsabilizziamo le comunità rom dando loro voce nel pianificare le politiche a loro destinate.
Ma una certezza c’è: chi sfida ogni giorno le persecuzioni e le discriminazioni della cultura maggioritaria e le conseguenze che queste hanno su di noi e sul nostro modo di vedere noi stessi, continuerà a combattere, a lavorare e a proporre soluzioni, avendo sempre davanti a sé la propria gente, la bellezza, la saggezza e la resistenza del popolo Romanì.
Ai rom e ai sinti: Bahtalo Romano Dives, a coloro a cui facciamo venire il mal di denti un’antica ricetta zingara. Taglia una scheggia da un albero, pulisciti i denti e strofinaci le gengive fino a che non si riempia di sangue. Buca l’albero, infilaci la scheggia insanguinata e dagli fuoco. Mentre brucia, volgi la schiena all’albero e allontanati senza voltarti mai e non vedere mai più quell’albero, altrimenti ti torna il dolore.