Ci sono notizie che lette in un modo possono persino indurre a pensare che qualcosa stia cambiando in meglio; lette con un’ottica diversa, portano invece a conclusioni opposte.
Il dato è che nel 2016 circa un milione di persone ha ottenuto la cittadinanza in uno dei Paesi membro dell‘Ue. Un milione su una popolazione di oltre 508 milioni (parlo dell’Unione europea) dovrebbe fare riflettere sulla paventata “invasione” o sulle minacce alla razza bianca. Senza tenere conto che, al contrario di quanto in genere si pensa o viene spacciato, la maggior parte degli immigrati nell’Ue ha la pelle chiara e proviene da Paesi di tradizione cristiana.
Certo si potrà obiettare che gli “extracomunitari” sono di più di quelli a cui viene data la cittadinanza, ma continuiamo a parlare di percentuali che non dovrebbero procurare allarmi. Una buona gestione organizzata, tradurrebbe questo fenomeno in opportunità.
Tanto per dare l’idea delle proporzioni, l’86% dei 65 milioni di persone in cerca di asilo trova accoglienza in Paesi del sud del mondo e non in Occidente. L’Italia accoglie circa il tre per mille della sua popolazione, la Svezia il 17 per mille e il Libano il 183 per mille. Questo piccolo Paese del Medio Oriente – tormentato da guerre continue, con una superficie pari a quella dell’Abruzzo – ha accolto più rifugiati siriani di tutti i Paesi dell’Ue messi insieme.
In questo poco edificante quadro, scopriamo però che l’Italia si distingue, infatti con la concessione di 201.591 cittadinanze (dati Eurostat) è al primo posto in Europa in termini assoluti, superando la Spagna, che ne ha concesse 150.944. Si potrebbe facilmente obiettare che gli “avversari” non si distinguono certo per senso di solidarietà; basti vedere i Paesi del gruppo di Visegrad, nonché la Francia, che da oltre un secolo sfrutta l’Africa in modo pesante, ne condiziona le scelte politiche ed economiche, ma si rifiuta di accogliere qualche centinaia di persone che languono a Ventimiglia o a Bardonecchia. In ogni caso, si può dire che il processo di integrazione piano piano si consolida e che il nostro Paese si rende conto, che abbiamo bisogno di regolarizzare molti degli stranieri che vivono qui e qui lavorano da anni.
Si tratta peraltro di una parziale risposta all’allarme lanciato qualche tempo fa dal presidente dell’Inps Tito Boeri, che ha messo in evidenza il tasso di invecchiamento che affligge tutta l’Europa ma in particolare dell’Italia e la conseguente necessità di fare entrare forze giovani. Se non si vuole farlo per motivi umanitari – che molta parte del Paese non condividerebbe (visti risultati delle elezioni) – lo si dovrebbe fare per convenienza, per garantire quel ricambio generazionale, che assicuri un futuro.
Concedere la cittadinanza a chi vive, lavora, paga le tasse qui è quindi prima di tutto un atto di giustizia sociale e poi anche un investimento per l’avvenire. Una cosa che dovrebbe partire dalla politica, se ci fosse qualcuno tra quelli che occupano i posti di governo capace di guardare avanti, un po’ più avanti della prospettiva dal fiato corto delle prossime elezioni. Non è così, in realtà: se accade è grazie al lavoro di molti dipendenti pubblici, che fanno semplicemente il loro lavoro. A volte c’è anche la banalità del bene.